18 luglio 1776. Un caso di omicidio nel Ghetto di Venezia senza giustizia

VENEZIA . Facile in questo periodo sentir parlare di mala-giustizia o di indagini condotte in modo superficiale. Indagini che spesso conducono in un’unica direzione, che evidentemente non era quella giusta e che una volta che porta all’assoluzione degli imputati, non offre altre vie da percorrere. Indagini che tralasciano indizi o che li sottovalutano. Indagini che sempre più si affidano a prove scientifiche prima ancora di cercare delle ipotesi investigative serie.

Cogne, giallo di Garlasco, Unabomber, omicidio di Marta Russo ed ora il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono alcuni dei grandi casi di cronaca nera che confermano il declino della investigazione italiana. Ma anche negli archivi storici di casi di indagini errate se ne possono trovare.

Siamo nel campo del Ghetto Vecchio a Venezia. Il campo, al centro del quale vi è un’antica vera da pozzo, si raggiunge facilmente dall’attuale stazione dei treni, subito a sinistra del ponte delle Guglie. Sono le dieci di sera del 18 luglio 1776 e un uomo sta bevendo un bicchiere di acqua al banco di un caffè, proprio vicino a quel ponte, dove oggi invece c’è una pizzeria. Quell’uomo si chiama Marco Scaramella, ha 26 anni e di professione fa l’intermediario commerciale. Il proprietario di quel caffè, invece, si chiama Abram Cuser e in quel momento sta discutendo con il suo garzone su alcune consegne da farsi per il giorno dopo. La porta del caffè si apre ed entrano due uomini, uno giovane ed uno anziano. In Ghetto tutti li conoscono come i fratelli Calimani, in realtà, il ragazzo giovane si chiama Moisè Musolin, mentre l’uomo anziano è Giuda Musolin, detto Lion.

I due vanno verso il banco e si mettono  alla sinistra e alla destra di Marco Scaramella. Non solo lo conoscono da molti anni, Marco ha addirittura sposato la figlia di Moisè. Eppure la presenza di quei due uomini lo infastidisce tanto che posa il bicchiere e decide di uscire. Purtroppo non sa che da quel caffè non uscirà con le sue gambe. I testimoni racconteranno che quella calda sera di luglio venne bruscamente interrotta da un urlo:
– dai mazzelo quel crestoso!

Un coltello lungo mezzo braccio a lama larga spunta tra quella gente e va a colpire sul fianco sinistro Marco, il quale riesce solo ad appoggiarsi al bancone senza comprendere bene né chi gli avesse dato quel colpo né cosa gli stesse accadendo. Il coltello gli aprì uno squarcio profondo. Moisè Calimani urla
-sior corbesan corrè
-ti me ha mazzà te vol che corra?
Marco crede, infatti, che sia stato uno dei fratelli Calimani a colpirlo, ma si sbaglia. Poi a causa dello shock si accascia sul pavimento mentre il sangue inizia a sgorgare copioso. Cuser, il proprietario del caffè, arriva di corsa, si china su quell’uomo e gli guarda la ferita. E’ una brutta ferita, si vedono le interiora uscire. Gli dice di tenerla stretta che andrà tutto bene. Ma non va per niente bene. Un garzone corre a chiamare un chirurgo. Nella confusione non tutti si accorgono che i fratelli Calimani non ci sono più, sono usciti prima assieme ad un terzo uomo. Chi era quell’uomo? Perché il suocero non aiuta il cognato ferito ?
Il giorno successivo il notaio dell’Avogaria, per ordine dell’avvocato Zorzi, viene condotto dal fante Pesoni in una casa del Ghetto. Deve salire quattro rampe di scale prima di entrare in una stanza dove sul letto è disteso il povero Marco Scaramella. Quel ragazzo disteso fa fatica a respirare, forse perché ha il ventre fasciato e la ferita lo tortura. La fasciatura è completamente intrisa di sangue.  Il notaio gli chiede se sa chi era stato a ferirlo. Con un filo di voce sussurra un nome: Giuseppe Vita figlio di Giuseppe Sacchi. Lui era il terzo uomo che era uscito di corsa da quel caffè con i fratelli Calimani.
Prima che le indagini cominciassero a dare dei risultati, il 20 luglio, Giovan Andrea Ferrari, chirurgo di San Marcuola, attesta che, a causa della ferita all’addome, quel ragazzo era morto alle 10, dopo esattamente 24 ore di sofferenza. Non si cerca più Giuseppe Vita Sacchi per tentato omicidio, ora è un assassino a tutti gli effetti.
Mentre il cadavere giace su di un lettino, la polizia sta interrogando i capi contrada i quali confermano la lista dei presenti anche se non si limitano solo a quello. Raccontano all’Avvocato che Giuseppe aveva schiaffeggiato nel pomeriggio Marco, un dettaglio questo che attira l’attenzione degli inquirenti. Forse il movente è un regolamento di conti tra i due.
Per accertarsi di avere tutte le informazioni inviano un chirurgo, tale Liberal Fornari, a visionare la vittima.  Nel referto il chirurgo sottolinea che vide la ferita nella parte sinistra con offesa degli intestini.

Ma a questo punto qualcosa nella macchina della giustizia veneziana si inceppa. La velocità che contraddistingueva le indagini degli organi di polizia della Serenissima sembra non esserci.
La prima ad essere interrogata dopo ben sette giorni è la moglie di Marco, Gentile Udine di Moisè. Perché ci mettono cosi tanto? E come mai non ricercano direttamente il Sacchi ? Non si sa. La moglie aggiunge poco a quello che già si conosce, racconta che Giuseppe Sacchi non aveva una professione e girava spesso a casa sua per imbrogliare suo padre. Le chiedono se sa dove potesse essere finito l’assassino. Forse era uscito dallo stato, alcuni dicevano a Trieste, aveva anche sentito dire che i Calimani lo avevano aiutato a fuggire.
Gli investigatori rintracciano una denuncia del 27 novembre 1775 nella quale il fante dell’officio dell’Avogaria di Comun aveva comandato a Giuseppe Vita Sacchi di non offendere molestare, ingiuriare la persona di Moise figlio di Samuel di Udine con pena di ducati cento e formazione di processo bando o prigione. Sembra rinforzarsi l’ipotesi di qualche rancore ma, a quel punto, succede qualcosa che cambia la situazione.

Il primo agosto si interroga Abram Cuser il proprietario del caffè. Questi racconta per filo e per segno ciò che era accaduto nel suo Caffè ma poi, quando gli viene chiesto se poteva conoscere il motivo, se ne esce con una strana storia. Lui sapeva, per sentito dire, che Moisè Musolin, il suocero dello Scaramella, aveva un rapporto “speciale” con l’assassino. Cosa intendeva? Voleva dire che correva voce che fosse il suo ragazzo di piacere. Gli inquirenti sembrano interessarsi più a questo aspetto che all’omicidio. A metà agosto si iniziano ad interrogare alcuni negozianti del Ghetto e le domande si fanno più specifiche sullo strano rapporto descritto. Abram Abdas Fonseca di 24 anni negoziante in ghetto racconta che la famiglia del Musolin era disgustata tra quello che passava tra il Sacchi e il suocero, infatti tutti sapevano che questo era il ragazzo del Musolin, quello che in veneziano si diceva il suo “bardassa”.
Alla vigilia di Natale si proclama che Giuseppe Vita figlio di Giuseppe Sacchi si presenti entro tre giorni, i tre giorni trascorsero ma il Sacchi non si presentò.
A questo punto le indagini prendono un altra piega. Perché? Perché era più importante approfondire il reato di sodomia, ben più grave nella mentalità dell’epoca di quello di omicidio. Il 24 gennaio l’avvogador che gestisce le indagini, Giuseppe Diedo , invia una missiva al Consiglio dei Dieci. Passa oltre un mese ed il 4 marzo dell’anno successivo il Consiglio dei Dieci inizia le nuove indagini. Sul Consiglio dei Dieci aleggiano leggende truci, alcune di quelle leggende corrispondono a verità, quindi la gente quando viene interrogata difficilmente omette di raccontare tutto quello che sa.

Il 6 marzo viene sentita nuovamente la moglie della vittima. Questa volta perché si vuole sapere da lei che rapporto c’era tra suo padre e l’assassino, ma di quel rapporto non dice nulla.
Poi i magistrati decidono di ascoltare il padre della vittima. Quest’ultimo riporta un altro tassello nel rapporto complicato tra le due famiglie. Alcuni giorni, prima dell’omicidio, Moisè e Giuseppe Vita Sacchi incontrarono casualmente suo figlio e lo invitarono a bere, ma al momento di pagare Giuseppe, in modo strafottente, disse che per lui pagasse pure il suocero. A quel punto suo figlio gli levò il fazzoletto e lo trattenne come rimborso. Ma Giuseppe la prese talmente male che lo minacciò di fargliela pagare cara. Impiegano quasi dieci mesi per interrogare tutti fino al 15 di dicembre, quando si decide finalmente di arrestare Lion e Moisè fratelli Calimani.

Il 30 dicembre arriva il bando contro Giuseppe Vita Sacchi la pena nel caso fosse stato preso era complessivamente di 10 anni di prigione all’oscuro.
Un mese dopo vengono estratti dalle carceri i fratelli Calimani e vengono accusati di contegno violento oltre alla complicità con il Sacchi nel farlo uscire dallo stato Veneto. Ma i fratelli Calimani sono benestanti e si possono permettere degli ottimi avvocati. Il loro avvocati produssero oltre trenta pagine di difese e decine di testimoni che smantellavano le varie accuse, basate più su dicerie che su fatti concreti.

Il 10 aprile 1779 vengono estratti nuovamente dalle carceri per chiedere se hanno altro da aggiungere. Con tutte le prove raccolte il caso sembrava chiuso, invece arriva l’ultimo colpo di scena di questo strano caso di omicidio.
Il 30 luglio vengono totalmente assolti. Perché ? Cosa era successo? Non lo sappiamo, ma è lecito supporre che i giudici del Consiglio dei Dieci accolsero le loro difese. Di questo strano caso possiamo semplicemente notare che l’indagine fu lenta fin dall’inizio. Sebbene si sapesse che c’erano stati dei complici nella fuga dell’assassino e si sapeva esattamente chi fossero, questi non vengono interrogati. Si preferisce imbastire una seconda indagine per il reato di sodomia, tralasciando importanti indizi circa l’omicidio. Il cambio magistratura rallentò ulteriormente l’investigazione. Dopo due anni di indagini l’assassino non venne catturato e i complici furono comunque assolti. Il caso di Marco Scaramella resterà senza giustizia.

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