Anno 1742. L’uso delle prove scientifiche dell’epoca in un caso di avvelenamento

VENEZIA – Caterina Piva sta servendo a suo marito la cena. Il fuoco è acceso e la tavola è imbandita di piatti, ci sono del pane e del vino. Suo marito, Domenico Moretto, le chiede di passargli altri fagioli turchi con un poco di polenta. Davanti a lui, dentro una zuppiera, è rimasto un pò di brodo di salado.

E’ una sera tranquilla e fuori si sentono i rumori di una notte di aprile della campagna veneta. Precisamente siamo nel piccolo borgo di Crespano del Grappa, nel comune di Treviso, conosciuto in veneto come Crespan. Dopo aver spento il fuoco nel caminetto la coppia si corica. E’ l’una della notte. Caterina chiama suo marito, piange, ha dei forti dolori al ventre, ma lui sta peggio, le dice che non riesce a muoversi. Passano poco più di dieci minuti ed iniziano a vomitare ai bordi del letto. Lei cerca di alzarsi, lui non ce la fa. Brancolando nel buio scende le scale, sono le sei della mattina e con un filo di voce chiede aiuto. Poche case vicine tra di loro. A quei richiami risponde subito Francesco Bortolazzo e il loro nipote Angelo Piva. Il silenzio di una notte tranquilla è interrotto dalle voci agitate dei vicini. Domenico Moretto si sente sempre più debole. Arriva il medico e lo visita. Non ha un bell’aspetto, cerca di somministrargli della mandorla dolce ma si rende conto che Domenico non vede più, ha perso l’uso della vista. Quando poco dopo arriva il prete oramai ha perso anche l’udito e il parroco gli da l’estrema unzione. Alle sette della mattina del 21 aprile 1742 Domenico Moretto è morto. Sua moglie, sempre vomitando, è distesa sul letto e sembra anche lei sul punto di morire.

Questo è quanto accade in quel piccolo paese di campagna. Un caso simile di morte non può non destare sospetti. Il sole oramai è alto in cielo quando a cavallo arrivano due uomini. Uno è il cancelliere pretorio, l’altro il comandante delle guardie. Entrano in casa e scendono la scala all’ingresso, in una stanza trovano Caterina. La prima operazione che fanno per iniziare le indagini è quella di interrogare l’unica superstite. Il racconto di Caterina è breve ma conciso. Racconta agli investigatori che Giovedi mattina la signora Angela vedova del dottor Antonio Lamber o Larber, medico, le offri una pignatella di fagioli turchi bianchi con un pò di brodo di salado. Li mangiarono a pranzo con il marito ma non ebbero nessun problema. La sera successiva Angela portò ancora altre due lire di farina di Sarazia tamisata e le disse che aveva voglia di mangiare della polenta ma, aggiungesse anche un poco della sua gialla. Quando la polenta fu pronta, Angela ne prese una piccola parte. Lei e il marito riscaldarono i pochi fagioli rimasti e mangiarono la polenta appena fatta, assieme a del pane con del vino. Gli investigatori immaginano, fin da subito, che ci possa essere stato un avvelenamento e, in questo caso, la possibile accusata è questa signora Angela. Ma il movente? Caterina spiega che quella donna è strana, a volte generosa e buona, altre volte invece irascibile. Molti la considerano matta e per questo motivo cercano di evitarla. Anche loro l’avrebbero fatto circa sette anni prima, a causa di alcuni problemi di confine per i quali Angela arrivò urlando con un manarino nelle mani.
-dove zè quel bestia busaron ? Riferendosi a suo marito che si trovava in casa.

-Non lo so.
Rispose la moglie, nel mentre il servo Giulio Rossi arrivò di corsa e le tolse l’arma, non prima che però la donna lanciasse uno strano monito
-dovrà morir per mano sua.
Poi il rapporto tra le due famiglie migliorò tanto che quella mattina era arrivata anche Angela e vedendo il marito morto si mise a piangere
-cosa avete mangiato?
-solo polenta
-ma anche io ho avuto la polenta ce l’ho ancora in tasca…
La mattinata per gli investigatori è stata proficua, si ha una indiziata ed un movente, l’indiziata è la moglie di un medico quindi poteva procurarsi con facilità numerose sostanze velenose, ecco che si ha anche l’opportunità.
Prima di uscire il comandante delle guardie chiede al fratello di Caterina, Valentin Piva, di avere un pò di quella farina. Valentin ne prende dalla cucina una piccola quantità e la consegna dentro un sacchettino. E’ a questo punto che il seguente caso si fa interessante. L’indagine scrupolosa prevede che si cerchi di appurare se fu proprio la polenta ad essere avvelenata. A riguardo si portano le testimonianze di Angela, vedova di Bastian Piva, cognata di Catterina la quale, a seguito del suggerimento della cognata, diede da mangiare a quattro o cinque galline semola, o grano ed alcuni pezzi di polenta avanzata dalla cena precedente. Dopo che di quelle galline  se ne ritrovò una morta, il Podestà decise di fare una autopsia del volatile.

Il 22 aprile nel palazzo Pretorio, alla presenza del Podestà e di alcuni testimoni, alle due del pomeriggio il dottor medico Castelli ed il chirurgo Francesco Vendramin prendono visione della gallina. Prima di tutto le furono strappate le piume e poi si passò all’esame visivo. Infine, si passò alla incisione, ritrovando nello stomaco della polenta. La perizia conclude che l’animale non fosse morto per nessun male naturale esterno o interno.
Come in una indagine scientifica attuale, il Podestà non si limita a trarre le sue conclusioni dalla perizia ma, decide di sperimentare quella farina su di una serie di galline vive, per poterne studiare gli effetti. Ordina quindi che si faccia della polenta e dopo aver chiuso in una stanza i volatili con la polenta, attende. Non sarà una attesa troppo lunga, dopo tre giorni di quelle galline non ne era sopravvissuta nessuna. Si periziano i cadaveri ritrovandoli del tutto simili a quelle già viste, con delle strane bruciature interne.

Ora di dubbi non ce ne sono.
Nel frattempo il Podestà interroga i vicini e tutti coloro che potevano essere informati dei fatti. Francesco Bortolazzo testimonia che non era al corrente di attriti tra le due famiglie, sapeva che il carnevale passato Angela aveva regalato a Domenico, due musetti e due martondelle.
Gli investigatori vogliono sentire anche il medico di Crespan che aveva visitato le due vittime.
Domenico Giuseppe dottore Zanoni racconta:
-Alle ore 12 circa fui chiamato a visitar Domenico Moretto e sua moglie. Ritrovai Domenico a letto sudante e con polso bassissimo lamentarsi di dolore allo stomaco. Suggerii, vista la morte prossima, una fetta di pane con vino sopra lo stomaco e subito dopo mori.

-E per la moglie?
-Per la moglie diedi l’argento corrosivo e dell’olio di mandorla dolce, clisteri di brodo e buttiro, acqua calda pannata con frequenti onzioni esterne.
Il 26 aprile il Cavalier di Corte Giuseppe dal Sasso, per mandato di giustizia andò a casa di Angela vedova del Dottor Medico Antonio Larber per arrestarla ma non la trova. Chiede alle famiglie vicine e queste gli rispondono che era scappata già alla mattina.
5 giugno, il Podestà Benetto Balbi comanda che in termini di giorni nove Angela si presenti al Carcere. Nel testo si riporta una frase curiosa che riassumeva le idee che si erano fatti i magistrati “con ridicola ma ben altrettanto artificiosa simulazione per più nasconder il mal suo operato l’esibesse garofali e cannella, adducendo, che pur essa oppressa da dolori di ventre l’andata notte si fosse valsa di quelli con frutto, untasi anco con l’oglio della lume”.
Angela non si presentò mai al carcere e cinque giorno dopo il comandador leggerà il bando nella chiesa parrocchiale di Crespano del Grappa.  
Di Angela si sentirà parlare ancora qualche anno dopo, quando il figlio Angelo Lamber, chiederà gli atti del processo, poi il silenzio cade definitivamente. Forse era morta o si era rifatta un’altra vita.
L’unica sopravvissuta di quella sciagura, Caterina, resterà per sempre invalida nel letto, assistita dal nipote.

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