L’attentato di Brindisi. Perché la mafia mette le bombe

Chi conosce la storia di Cosa nostra, così come quella delle altre organizzazioni criminali, sa che essa non ha nessun interesse a sparare nel mucchio, a seminare morte e terrore. La principale conseguenza, ed anche la più immediata, è una risposta dello Stato o con provvedimenti legislativi o con la militarizzazione del territorio, in entrambi i casi, deleteri per la conduzione degli affari criminali, che fioriscono con il silenzio e la coesione sociale.

Se, dunque, il terribile attentato di Brindisi, rivolto contro innocenti studenti che stavano per recarsi nella loro scuola (una delle tante che partecipava, come ogni anno, alla manifestazione per la legalità, in coincidenza con l’anniversario di Capaci) è davvero opera di Cosa nostra, ciò può significare soltanto questo: che l’organizzazione criminale (e qualche suo prezioso alleato) si sente in pericolo e che, in qualche aula di tribunale o in qualche ufficio investigativo, magistrati e forze dell’ordine hanno scoperto o potrebbero farlo qualcosa di molto pericoloso per gli equilibri mafiosi.

Gli attentati dinamitardi del 1993 a Roma, Firenze e Milano, furono organizzati da Cosa nostra perché si era frantumato il sodalizio politico che per quarant’anni aveva legato i mafiosi al principale partito di governo, la Democrazia Cristiana, consentendole ricchezza e prosperità. Con quelle bombe, i corleonesi (il loro capo, Totò Riina era stato arrestato il 15 gennaio di quell’anno) volevano mostrare di poter colpire come, quando e dove desideravano, seminando il terrore. La risposta dello Stato – come sta emergendo dalle inchieste siciliane – fu probabilmente quella che i mafiosi si attendevano: una trattativa per individuare nuovi equilibri in grado di ripristinare lo status quo ante, cioè la pace mafiosa, perseguita con tenacia dall’allora capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano (arrestato soltanto nell’aprile del 2006).

Ma quale può essere oggi il pericolo che Cosa nostra sente così intensamente da essere indotta ad uccidere giovani studenti in una Regione dove, peraltro, non ha storicamente alcuna ramificazione, se non collegamenti tutti da individuare con organizzazioni mafiose locali, quali la «Sacra corona unita»?

Anche in questo caso non si possono fare che ipotesi. Escluso ogni intendimento di riaffermare un potere territoriale (la mafia non ne ha bisogno, in maniera così eclatante poi) a ridosso del ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, il pensiero non può che andare alle indagini sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra dopo le bombe del 1993 e, in particolar modo, alla scoperta del grande depistaggio su via D’Amelio, organizzato non soltanto da Cosa nostra, nato dalle false dichiarazioni di un pentito, Vincenzo Scarantino e proseguito con la condanna di persone che non c’entravano nulla con la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Da quella che ancora è una nebulosa nella quale i magistrati di Caltanissetta stanno cercando di orientarsi, grazie anche alle preziose dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (è lui che portò materialmente l’esplosivo a Capaci per sterminare Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, ai quali era intitolata la scuola di Brindisi), potrebbe essere emerso qualcosa che Cosa nostra e qualche altra entità non gradiscono. Che cosa? E chi c’è dietro la terribile bomba pugliese di questa mattina? Quale il suo volto? Risposte certe, purtroppo, i magistrati nisseni ancora non ne hanno. Di sicuro, ora come ora, c’è che qualcuno ha ricominciato a spargere bombe in giro per il Paese e che, forse, non si fermerà.

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