Il risveglio dell’Europa a rischio fuori tempo massimo

ROMA – Non ci voleva Shinzo Abe per comprendere che l’Europa stesse sbagliando tutto e che, andando avanti così, il pericolo di un’implosione dell’intero progetto comunitario si sarebbe trasformato in una certezza. Il guaio, purtroppo, è che questa presa di coscienza rischia di essere tardiva.

Se anziché degli pseudo leader, egoisti e privi della benché minima lungimiranza, avessimo al potere degli statisti, probabilmente il discorso sarebbe assai diverso: la Grecia sarebbe stata a salvata a suo tempo, il contagio sarebbe stato evitato e il presidente della Confindustria italiana, Squinzi, non sarebbe stato costretto ad asserire pubblicamente che “l’Italia è sull’orlo del baratro”: una frase che avrà senz’altro delle ripercussioni sia sui mercati sia sui già fragilissimi equilibri del governo Letta.
Fortunatamente, in tanta malora, Hollande ha rimosso con anni di ritardo il veto francese nei confronti di un governo unitario europeo con un bilancio comune, un debito pubblico sovrano comune, una politica estera e di difesa e un sistema bancario comune e una Banca centrale finalmente dotata dei poteri di cui godono le altre banche centrali: il tutto da realizzarsi, a suo giudizio, entro il 2015.
A tal proposito, è doveroso esporre due considerazioni di diversa natura. La prima riguarda una piccola, ma significativa, rivendicazione di schieramento perché non sorprende affatto che ad assumere una decisione così coraggiosa da essere definita addirittura “rivoluzionaria” sia stato un progressista, a dimostrazione di quanto l’Europa avrebbe bisogno di essere governata da una vera sinistra, avversaria, per non dire proprio nemica, del pensiero neo-liberista che ci ha condotto al disastro e in grado di indicare un modello di società e di sviluppo radicalmente alternativo a quello che abbiamo subito nell’ultimo trentennio.
La seconda, invece, è caratterizzata dal doveroso scetticismo nei confronti di questa svolta perché – come detto – per quanto rivoluzionaria, rischia comunque di essere tardiva ed inutile, specie se si considera il panorama politico europeo nella sua interezza.
È inutile negare, infatti, che nessuna nazione, nemmeno quelle di più antica e solida tradizione democratica, è oggi al riparo dall’ondata populista, euroscettica e xenofoba che si è abbattuta in questi anni sul Vecchio Continente, con la nascita di quasi trenta formazioni decise a condurre i rispettivi paesi fuori dall’Euro e a ripristinare dazi e limitazioni nella circolazione di merci e persone, in una moderna versione del protezionismo che è quanto di più dannoso possa esistere in un mondo oramai globale in cui i singoli stati, se si isolano, rischiano di essere annientati e ridotti all’irrilevanza.

Senza contare i programmi aberranti che esse presentano in fatto di immigrazione e integrazione, con posizioni che vanno da quelle tipiche dell’estrema destra xenofoba a quelle che semplicemente prosperano sulla collera e il risentimento degli strati sociali più deboli e colpiti dalla crisi e non hanno, dunque, alcun interesse a contrastare il razzismo dilagante, dettato dal sospetto che gli stranieri possano venire a “rubare” i pochi posti di lavoro rimasti, magari accettando condizioni salariali e di trattamento intollerabili in qualunque democrazia occidentale.
Per questo, da tempo, la vacillante Europa è messa a confronto sia con l’America di Obama, che ha ripreso a correre alla grande e sembra destinata a lasciarsi alle spalle la crisi nel giro di pochi mesi, sia, per l’appunto, col Giappone del liberaldemocratico Shinzo Abe la cui politica fiscale, basata sul raddoppio della base monetaria, sul raddoppio dell’inflazione e su investimenti pubblici da oltre cento miliardi di dollari, è stata prontamente ribattezzata Abenomics.
Ora, posto che si tratta di misure azzardate e sui cui risultati a lungo termine è lecito conservare più di qualche perplessità, posto che Abe, a differenza di Obama, non è certo il miglior modello possibile per la sinistra europea e posto che da noi politiche di questo genere sarebbero impensabili, va detto che non è male che, sia in Oriente che in Occidente, qualcuno inizi ad accorgersi dei danni prodotti dalla famosa Reaganomics e della fragilità strutturale cui attualmente è soggetta la maggior parte degli stati a causa di quel modello di privatizzazioni selvagge ed esaltazione acritica del libero mercato.

Perché è questo il vero dramma dell’Europa, è questa la zavorra che rischia di trascinarla a fondo: la mancanza di fiducia reciproca, l’assenza di politiche di controllo e d’indirizzo, la debolezza di una politica incapace di decidere e, meno che mai, di progettare il futuro delle nuove generazioni e, soprattutto, la crisi di un sistema economico, culturale, valoriale e democratico che così com’è non regge più e rischia di cedere brutalmente il passo al caos di un regime di anarchia dalle conseguenze imponderabili.
Sia pur con immenso ritardo, pare che stia cominciando a capirlo persino la cancelliera Merkel, probabilmente a causa dei tassi di crescita inferiori alle attese, dovuti al fatto che, per esportare, occorre che qualcuno acquisti i tuoi prodotti ed è assai difficile che questo avvenga nel momento in cui l’intero Mediterraneo è allo stremo e la Gran Bretagna del sempre più tentennante Cameron non se la passa poi tanto meglio.
Tuttavia, come nel caso di Hollande, il pericolo è che questo risveglio del buonsenso fuori tempo massimo possa farli apparire ancora più ridicoli: due pompieri con l’estintore in mano quando oramai dell’edificio è rimasto solo lo scheletro. E questa sgradevole sensazione, spiace doverlo ammettere, è dovuta anche al fatto che i maligni sussurrino che l’improvvisa resipiscenza del duo Merkollande non sia frutto del loro rinnovato slancio europeista quanto, soprattutto, dal timore di essere travolti dai fautori dell’anti-europeismo duro e puro che in Francia hanno le sembianze di Marine Le Pen e del suo Front National e in Germania quelle, altrettanto insidiose, di Bernd Lucke e della sua Alternative für Deutschland che alcuni sondaggi stimano intorno al venticinque per cento.
Ancora una volta, pertanto, l’europeismo dei leader dei due principali paesi del Vecchio Continente non sarebbe figlio di una vocazione o di una convinzione interiore ma della paura concreta di essere spazzati via e, quindi, per assurdo, sarebbe un’ancora cui aggrapparsi per disperazione, una scelta dettata dal desiderio di conservare il proprio potere e il proprio prestigio e non l’espressione più alta e nobile di una volontà di cambiamento e di speranza.

Al che, specie con riferimento alla Merkel e al suo tristemente noto ministro Schäuble, mi vien da riflettere sul fatto che la miope dirigenza tedesca si sia sempre opposta alla possibilità che la BCE stampasse moneta per timore di rivivere il dramma di un’inflazione senza controllo che ottant’anni fa condusse al collasso la Repubblica di Weimar, favorendo l’ascesa di Hitler. Mi vien da riflettere sì perché, di fronte a una Grecia in fiamme, a una Spagna in ginocchio, a un Portogallo senza prospettive e ad un’Italia in cui il Presidente di Confindustria utilizza da mesi le stesse parole di Landini per descrivere la catastrofe in cui siamo immersi, mi domando se i nostri eroi abbiano mai letto la celebre riflessione di Gustav Radbruch (ministro della Giustizia della Repubblica di Weimar) sulla democrazia: “Il pericolo per una democrazia può derivare non tanto dalla forza dei suoi oppositori quanto dalla debolezza dei suoi sostenitori”. Purtroppo temo di no ma di sicuro, se anche l’avessero letta, non ne hanno compresso la drammatica attualità.

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