La stagione degli irresponsabili

ROMA – Al momento, non sappiamo se, come e quando si concluderà la sciagurata vicenda dello “shutdown” (la chiusura dei servizi federali ritenuti non essenziali) che da giorni sta paralizzando l’America e mettendo in serie difficoltà l’amministrazione Obama, ma una cosa è certa: questa vicenda, dai tratti in parte tragici e in parte grotteschi, è sintomo di una radicalizzazione dello scontro politico che, purtroppo, coinvolge entrambe le sponde dell’Atlantico.

Noi italiani, da questo punto di vista, siamo davvero gli ultimi a poter dar lezioni, visto e considerato che fino alla settimana scorsa abbiamo avuto un governo traballante e costretto a navigare a vista a causa dei diktat e delle richieste insostenibili di un partito il cui unico scopo, fino alla semi-scissione delle colombe guidate dai membri dell’esecutivo, sembrava essere quello di difendere fino alla morte il proprio leader.

Tuttavia, la simultanea farsa andata in scena a Roma e a Washington, offre un altro spunto di riflessione da non sottovalutare, ossia la netta prevalenza in quasi tutti i partiti di destra delle frange più estremiste, di coloro che sarebbero disposti a tutto pur di danneggiare e abbattere gli avversari, perfino a trascinare il proprio Paese sull’orlo del default.

Senza dubbio, una delle componenti essenziali del ritorno in scena degli estremisti è la devastante crisi economica che sta squassando l’intero Occidente, spingendo popoli sempre più soli, disperati, abbandonati a se stessi e privi della benché minima certezza per il futuro a gettarsi nelle braccia di partiti e movimenti la cui unica ragione di vita è quella di distruggere e radere al suolo, ispirati come sono a quel desiderio feroce di palingenesi che da sempre caratterizza l’ascesa di tutti i regimi totalitari e dei suoi protagonisti.

Non a caso, l’unica nazione in cui abbiamo a che fare con una destra presentabile è la Germania, dove spesso le proposte di Angela Merkel sono risultate assai più di sinistra rispetto a quelle di un partito socialdemocratico che, dai tempi di Schröder, ha smarrito l’anima e perso di vista le ragioni della propria stessa esistenza.

Nel resto d’Europa, invece, e anche negli Stati Uniti, stiamo assistendo a una tragedia che rischia seriamente di trasformarsi in catastrofe, tra neonazisti, xenofobi, ultra-nazionalisti, populisti di vario ordine e grado e, nello specifico caso italiano, partiti padronali e leadership assolute che, come tutte le monete cattive, rischiano di scacciare le poche monete buone rimaste in una sinistra che non se la passa poi tanto meglio di quella tedesca.

Tornando a quanto sta accadendo Oltreoceano, è illuminante leggere un’analisi di Paul Krugman, pubblicata domenica scorsa da “Il Sole 24 Ore” e intitolata: “Shutdown, economia e politica del caos”. Partendo da una saggia analisi dell’economista Mark Thoma, infatti, Krugman asserisce che l’assurda battaglia ideologica dei Tea Party sul presidio sanitario dell’Obamacare e sul tetto del debito pubblico statunitense è solo uno degli aspetti della vicenda e che il collegamento tra esso e il dilagare delle ingiustizie e delle disuguaglianze non basta a spiegare la follia di personaggi privi di una qualunque capacità d’analisi e ancor meno dotati di quella lucidità di pensiero che dovrebbe contraddistinguere tutti coloro che si dedicano all’attività politica. Per Krugman, difatti, “molti dei ricchi sono selettivi nella loro avversione verso gli aiuti pubblici per gli infelici: sono contrari a cose come i buoni alimentari e i sussidi di disoccupazione, ma quando si tratta di salvare Wall Street sono più che favorevoli!”. E aggiunge: “La mia teoria è che i ricchi si sono comprati un partito di destra radicale, convinti – a ragione – che gli avrebbe tagliato le tasse e ridotto la regolamentazione, ma senza rendersi conto che la follia alla fine avrebbe assunto vita propria e che il mostro che avevano evocato si sarebbe rivoltato non solo contro i poveracci, ma anche contro i suoi creatori”. Non solo, il Premio Nobel per l’Economia si spinge addirittura a parlare apertamente di lotta di classe, ponendo in risalto la lotta fra gli interessi dello 0,1 per cento della popolazione e quelli del restante 99,9, ossia di quella maggioranza costretta a subire prepotenze, vessazioni, soprusi e ingiustizie d’ogni sorta.

Tutto questo induce a interrogarsi profondamente sulla natura di un capitalismo sempre più malato e in crisi, oramai palesemente inadeguato a far fronte alle esigenze di una società aperta e globale e di un mondo multipolare, nel quale un sistema ideato per un pianeta con la metà degli abitanti e due grandi potenze a far da contraltare l’una all’altra rappresenta non solo un freno allo sviluppo e alla crescita economica ma anche il principale impedimento all’affermazione dei diritti e della dignità degli esseri umani nel nuovo secolo.

 

Per non parlare poi di ciò che sta accadendo nel gretto mondo della finanza che, mentre lo Stato rischia il default, è intento a salutare con entusiasmo lo sbarco di Twitter a Wall Street, cullandosi nell’assurda illusione che un Paese, per quanto ricco e potente, possa basarsi unicamente su un pensiero virtuale, espresso per giunta in centoquaranta caratteri.

Questa, pertanto, è la vera crisi: la crisi dei valori, delle idee, del pensiero, di un sogno destinato a trasformarsi presto in un incubo per il semplice motivo che si tratta dell’ennesima bolla, dell’ennesima presa in giro, dell’ennesimo miracolo economico con le fondamenta nelle nuvole, come è già avvenuto  con i mutui “subprime” e come continuerà ad avvenire fino a quando l’America perseguirà un modello di società e di sviluppo improntato all’egoismo, all’individualismo sfrenato e ai presupposti culturali di una dottrina, quella del neo-liberismo reaganian-thatcheriano, che in tutto il mondo non ha seminato altro che distruzione e sfacelo.

Come ha asserito il magnate della finanza Warren Buffet: “C’è stata una guerra di classe negli ultimi vent’anni e la mia classe ha vinto”. È un’analisi impeccabile. Peccato che abbia omesso di dire che qui non siamo di fronte al collasso di una semplice Nazione, per quanto grande ed influente, ma di un intero sistema e che proprio la storia americana ci insegna che, quando viene giù il tempio, le pietre non risparmiano nessuno: né i poveri né i miliardari.

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