Il PD e lo spettro di un Monti bis

ROMA – Per comprendere le ragioni del frenetico agire di Renzi, la cui battuta oggettivamente fuori luogo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, a margine della riunione della segreteria svoltasi per la prima volta a Firenze, ha portato ieri sera alle dimissioni del vice-ministro dell’Economia Stefano Fassina, probabilmente, bisogna tornare indietro di un anno: al dicembre 2012, quando furono proprio le dichiarazioni di Alfano alla Camera a indurre Monti a rassegnare anzitempo le dimissioni, costringendo il Paese a tornare alle urne in febbraio e ad assistere a una delle peggiori campagna elettorali di sempre.

Non a caso Bersani (cui il nostro giornale rivolge i più affettuosi auguri di una pronta guarigione a seguito del malore che l’ha colpito stamattina), che quel 7 dicembre 2012 aveva da poco vinto le Primarie per la premiership contro Renzi, ha ammesso qualche mese più tardi che il suo più grande errore, assai più grave di una campagna elettorale condotta oggettivamente sotto tono, è stato proprio quello di non sfiduciare a sua volta Monti un minuto dopo il gesto di Berlusconi, mantenendo la linea della responsabilità e della saggezza istituzionale mentre i diretti avversari si preparavano a una sfida col coltello fra i denti, tutta giocata a colpi di populismo, qualunquismo, demagogia spicciola, accuse e insulti all’indirizzo delle altre forze politiche, a cominciare ovviamente dal PD, e delle istituzioni, prima fra tutte la Presidenza della Repubblica, secondo un copione che si sarebbe ripetuto nei mesi successivi, con un crescendo rossiniano di toni e di accuse.

Per questo, ha fatto bene il neo-segretario del PD a ribadire la necessità, peraltro espressa anche dal Capo dello Stato nel suo bel discorso di fine anno, di realizzare subito alcune delle riforme troppo a lungo rinviate da una politica recalcitrante e incapace di porsi in sintonia con le richieste di un Paese sempre più fragile, sempre più arrabbiato, sempre più rancoroso nei confronti di una classe dirigente considerata inutile e dannosa.

E dice il vero anche sulla necessità che il tutto (dalla trattativa sulla riforma della legge elettorale alla trasformazione del Senato in una Camera non elettiva delle autonomie regionali) avvenga alla luce del Sole, senza accordi segreti di corto respiro, colpi bassi, trame oscure e altre consunte modalità di far politica, oramai insopportabili per l’opinione pubblica.

Il ruolo del “ rottamatore” incompatibile con la carica di segretario

Il vero errore di Renzi, dunque, è un altro e risiede, come spesso gli è accaduto anche in passato, nei toni e nei modi con cui si pone e tenta di imporre le sue proposte e la sua agenda. Che gli piaccia o no, infatti, oramai non è più un ragazzotto di belle speranze, costretto a spararle grosse per attirare su di sé l’attenzione dei mezzi d’informazione; né può pensare di continuare a vestire, come un tempo, i panni dell’outsider o del “rottamatore”, probabilmente il ruolo che più gli si addice ma del tutto incompatibile con la carica che riveste attualmente.

Perché, passi la rivendicazione di una certa diversità rispetto ad Alfano, esponente di un altro schieramento e con un percorso politico che nulla o quasi ha a che vedere con quello di Renzi se non le comuni origini democristiane, ma non può assolutamente dire lo stesso nei confronti di Letta, cui lo lega la comune provenienza dalla Margherita e il sostegno di una parte non certo secondaria dei lettiani alle Primarie dello scorso 8 dicembre. Così come non ha alcun senso, da parte sua, smarcarsi rispetto al passaggio generazionale indicato dal Premier nella conferenza stampa di fine anno, anche perché, per uno che ha fatto della rottamazione della vecchia classe dirigente il proprio cavallo di battaglia, sarebbe come rinnegare se stesso e anni di lotta politica.

Renzi scivola sulla classica buccia di banana

In poche parole, durante il colloquio di domenica scorsa con “La Stampa”, Renzi è scivolato sulla classica buccia di banana di colui che, evidentemente, non ha ancora ben chiaro che per cambiare realmente il corso delle cose non basta volerlo né schioccare le dita, soprattutto in una fase così delicata, soprattutto quando si è costretti a fare i conti con un governo difficile da sostenere ma indispensabile per il bene del Paese, soprattutto quando si ha la certezza di doversi, prima o poi, sedere al tavolo con degli alleati-avversari che giustamente rivendicano le proprie priorità, i propri punti programmatici e la validità delle proprie idee, dovendo affrontare anche il non piccolo problema di giustificare agli occhi dell’elettorato di centrodestra la traumatica scelta di non seguire Berlusconi in Forza Italia e dar vita a una formazione politica autonoma.

Senza contare che, per quanto sia comprensibile il desiderio del neo-segretario del PD di incassare subito dei risultati visibili da rivendicare in vista delle Europee di maggio, i processi riformatori, per essere validi e utili al Paese, richiedono il tempo loro, la dovuta dose di pazienza e il dialogo più ampio possibile con le altre forze politiche e con i numerosi soggetti sociali che sarebbe sbagliato escludere da un dibattito che riguarda il futuro dell’Italia nei prossimi decenni.

Le riflessioni di Cuperlo: trasformare l’odio in riscatto

A tal proposito, pur non vedendo di buon occhio la prospettiva di un ritorno anticipato alle urne, ci sembrano assai più ragionevoli le riflessioni esposte da Cuperlo in alcune recenti interviste: dalla proposta di coinvolgere, in un eventuale ridefinizione degli incarichi di governo, anche qualche esponente della società civile disposto a fornire il proprio contributo alla ricostruzione delle fondamenta morali e culturali del Paese alla sua ottima analisi delle ragioni storiche e delle possibili conseguenze della crisi in atto. Ha spiegato difatti Cuperlo, in un colloquio con “l’Unità” : “Stiamo attraversando una delle crisi economiche più gravi di sempre, che stavolta però coinvolge anche l’etica pubblica, le istituzioni. Sono sette anni in cui è cambiato tutto e non si tratta più di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma di quanto si è ampliata la forbice delle diseguaglianze. La parte di Paese più in sofferenza sta accumulando odio, rabbia, sentimenti che possono incrinare i fondamenti stessi della democrazia. Il compito della sinistra credo sia quello di trasformare quell’odio in riscatto”.

Una crisi sistemica, nessun Paese sopravvive da solo

Siamo, insomma, di fronte a una crisi sistemica, al termine della quale nulla sarà più come prima, anche perché il Novecento si è oramai concluso da quasi tre lustri e dobbiamo imparare a convivere con un mondo assai diverso, dai ritmi differenti, dagli assetti multipolari, sempre più tecnologico e interconnesso, nel quale non possiamo e non potremo mai più ragionare in un’ottica localistica, per il semplice motivo che oramai tutte le decisioni hanno ricadute globali e nessun paese, tanto meno il nostro, può pensare di sopravvivere chiudendosi in se stesso e rivendicando una sovranità nazionale che, di fatto, non esiste più nemmeno nei manuali di politologia.

Pertanto, soprattutto alla luce di queste ultime considerazioni, l’intero gruppo dirigente del PD deve avere ben chiaro che continuare ad agitare lo spettro di Monti, smarcarsi con tanta nettezza da un governo guidato da un proprio esponente e trattare il proprio ex vice-segretario come una sorta di grigio burocrate che ha fatto carriera per cooptazione, rischia di farlo percepire come inaffidabile, poco serio e totalmente irresponsabile agli occhi dei suoi stessi elettori. Noi sappiamo che non è così ma, se nell’opinione pubblica dovesse passare questo messaggio, il baratro delle elezioni anticipate sarebbe inevitabile, con il serio rischio di una sconfitta irrimediabile delle forze progressiste, di un trionfo del populismo più becero e dannoso e della trasformazione di una crisi sistemica in un labirinto senza uscita che finirebbe con l’intrappolare i sogni, le speranze e le piccole prospettive di ripresa di una Nazione allo stremo.

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