La Polonia emblema della non Europa

ROMA – Spiace doverlo ammettere, ma continuando di questo passo l’Europa non avrà un futuro. E a dirlo ormai non sono solo gli euroscettici, gli anti-euro e coloro che vivono nel mito delle piccole patrie chiuse in se stesse, illudendosi che in un mondo globale possano avere un senso o contare ancora qualcosa: a dirlo sono ormai personalità come Romano Prodi che dell’Unione Europea sono state fra i fondatori e fra i più convinti sostenitori sin dall’inizio. 

In tal senso, la vicenda polacca è emblematica: la netta affermazione del PiS (Diritto e Giustizia) dell’ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski e della sua ventriloqua Beata Szydło, i quali potranno governare da soli, dominando di fatto il Sejm (la Camera bassa), ci dice infatti con estrema chiarezza che la direzione intrapresa non guarda agli ideali di pace e dignità della persona che animarono i visionari del dopoguerra ma al tristemente celebre primo ministro ungherese, Viktor Orbán, idolatrato da tutte le destre razziste e xenofobe del Vecchio Continente e portato ad esempio di buon governo e fermezza nei confronti della deriva germanocentrica.

Il dramma è che la deriva germanocentrica, purtroppo, è una realtà concreta, riproponendo l’eterno dilemma fra “un’Europa tedesca e una Germania europea”, con la prima opzione a farla da padrona da quando la cancelliera Merkel si è arrogata il ruolo di dominus dell’Unione, salvo poi venir meno ai suoi doveri di leadership in occasione di tutte le crisi succedutesi negli ultimi anni.

Dov’era la Germania quando esplodeva la crisi greca? Per quale motivo, per salvare le proprie banche e quelle dell’imprescindibile alleato francese, è arrivata al punto di mettere in ginocchio l’intero Sud Europa? E ancora: dov’è stata in questi anni la Germania mentre la Commissione e il Parlamento europeo venivano spogliati di ogni facoltà di decisione, a vantaggio del Consiglio europeo nel quale, per ovvi motivi, i tedeschi la fanno da padroni? Perché ha preferito il modello intergovernativo al progetto di costruire tutti insieme gli Stati Uniti d’Europa? Infine, perché anche sulla drammatica questione dei migranti, delle rotte del Mediterraneo e della necessità di selezionarli e accoglierli degnamente nei nostri paesi, prima della tragedia del piccolo Aylan, non ha detto una parola, lasciando la periferia stremata dalla crisi a combattere, pressoché da sola, con un fenomeno di dimensioni mai viste?

Perché è inutile nascondersi: quando Marek Magierowski, consigliere del presidente ultraconservatore Andrzej Duda, spiega in un’intervista a “la Repubblica” che uno dei grandi problemi dell’Europa è proprio l’unilateralismo e lo strapotere dei tedeschi, afferma una grande verità, inoppugnabile anche se si dissente totalmente da tutto il resto di ciò che dice, anche se si ritiene la sua parte politica un pericolo e anche se si considera quest’avanzata delle destre più retrive un virus che rischia di destabilizzare ulteriormente i già fragili equilibri di un continente allo sbando, privo di una visione e di una prospettiva condivisa per il futuro.

Allo stesso modo, per quanto lo slogan del PiS “Portiamo Budapest a Varsavia” ci appaia ripugnante, è innegabile che alcune delle riforme socio-economiche del governo conservatore uscente abbiano devastato la coesione sociale di un Paese che pure non se la passa male economicamente, godendo, nonostante la crisi, di un tasso di crescita di tutto rispetto e di uno sviluppo impensabile fino a una trentina d’anni fa.

Tuttavia, il voto di domenica è la tangibile dimostrazione che non basta: non basta un pizzico di benessere se il tessuto civico è sfibrato; non basta qualche risorsa per costruire una comunità coesa e pronta a collaborare insieme; non basta essere stimati nelle grandi città se nelle periferie del disagio e della sofferenza attecchiscono alla grande i movimenti che soffiano sul fuoco della paura e dell’insofferenza nei confronti degli immigrati e non basta, in conclusione, essere fedeli ai dogmi del liberismo tuttora imperante se non si riesce a governare i cambiamenti in atto.

Il vero limite del primo ministro uscente, Eva Kopacz, così come del suo predecessore Donald Tusk, non è stato pertanto di carattere comunicativo quanto, più che mai, di natura politica: la destra “presentabile” di Piattaforma Civica ha stancato perché è mancata loro una visione, un progetto, un orizzonte, una missione nella quale coinvolgere e far sentire protagonisti anche quei cittadini che vivono ai margini della società e hanno paura di cambiamenti repentini che non riescono a capire e dei quali faticano ad accettare la portata. Hanno perso perché sono stati presuntuosi, andando avanti per la propria strada di fronte al malessere sociale crescente piuttosto che sforzarsi di comprenderlo e di porvi rimedio; e con essi ha perso l’intera Europa che ora vede rafforzarsi il gruppo di Visegrad, ostile alle quote di migranti da ripartire nei vari paesi, la linea nettamente anti-russa che, oltre a rallentare la ripresa delle nostre economie, sta impedendo il mantenimento di buoni rapporti con un interlocutore essenziale sui fronti caldi del terrorismo e della lotta contro il cancro dell’ISIS e il blocco retrogrado che vorrebbe riportare il Vecchio Continente a prima della Dichiarazione di Schuman, ossia ad un contesto di stati nazionali in costante conflitto fra loro, con il rischio che la Terza guerra mondiale denunciata da papa Francesco si trasformi in una realtà concreta. 

Non solo: la vittoria degli ultraconservatori in Polonia impedirà anche di compiere qualche passo avanti nelle delicate trattative per avviare a soluzione la crisi ucraina, col pericolo che si arrivi al muro contro muro con un avversario, la Russia, che, per dimensioni e caratteristiche, nessuno è mai riuscito a domare.

A completare il disastro, provvede la totale emarginazione, per non dire la scomparsa, dei partiti di sinistra, fuori dal Parlamento e ridotti all’irrilevanza proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di una loro presenza attiva nelle istituzioni e nel grembo della società.

Evitiamo, però, lo stupore ipocrita: nel momento in cui la tecnoburocrazia di Bruxelles ha, di fatto, stabilito che la sinistra non possa e non debba governare da nessuna parte, come si è visto di recente in Portogallo e come si è visto ad Atene quest’estate, con Tsipras costretto a compiere una tremenda retromarcia per non veder sprofondare il suo Paese nel baratro, nel momento in cui si è deciso di uccidere una cultura politica e di umiliare tutti coloro che vi si riconoscono, non ci si può lamentare se ad aver successo sono quelle forze politiche realmente anti-europeiste, le quali non hanno alcuna intenzione di modificare i trattati attualmente vigenti, rendendoli più accettabili, più eticamente sostenibili e al passo con tempi assai diversi rispetto ai giorni di Maastricht nei quali venne stabilito, ad esempio, il parametro del 3 per cento nel rapporto fra deficit e PIL, in quanto il loro unico obiettivo dichiarato è quello di distruggere l’Europa e tutto ciò che essa rappresenta.

L’amara verità di queste elezioni polacche è la conferma di un vento che spira da est e che ormai sta contagiando anche il resto del Vecchio Continente, con la stessa Merkel criticata in patria dalla frangia più oltranzista degli alleati bavaresi della CSU per le sue posizioni finalmente umanitarie sulla questione dei migranti e sulla necessità di far fronte comune dinanzi a un esodo che nessuna politica restrittiva potrà mai arrestare: un processo storico destinato a modificare la nostra realtà sociale assai più della crisi economica tuttora in corso.

Al che, mi torna in mente un dibattito di qualche anno fa fra Enrico Letta e Lucio Caracciolo, racchiuso in un dialogo dal titolo significativo: “L’Europa è finita?”, nel quale il direttore di “Limes” asserisce: “La pressione degli ex satelliti sovietici era rivolta verso la NATO prima che verso l’Unione Europea. Ricordo che quando la Polonia ottenne di accedere all’Alleanza atlantica, il presidente Kwaśniewski volle adornare il suo palazzo con la bandiera della NATO, affiancata a quella nazionale. Nessun presidente europeo aveva esposto lo stendardo atlantico alle finestre della sua sede. Ciò per sottolineare quali fossero le priorità di quelle nazioni, soprattutto dei polacchi e dei baltici: priorità di sicurezza, di garanzia americana rispetto allo spettro del ritorno all’imperialismo russo”. E Letta risponde: “Le crisi successive all’allargamento sono figlie degli errori dei primi anni Novanta. L’errore più grave è stato il fatto di non aver capito che l’uscita dalla sfera di influenza sovietica di quei Paesi necessitava di un immediato ancoraggio istituzionale all’Unione Europea. E invece, contestualmente alla caduta del Muro di Berlino, l’UE ha dato un’accelerata impressionante alla sua unificazione interna e, contemporaneamente, non ha dato la necessaria accelerazione all’ancoraggio istituzionale di quei Paesi all’Europa. In quegli anni furono firmati degli accordi di associazione, furono investiti molti soldi. Ma ciò non toglie che il messaggio allora proveniente dall’Europa era che dovevano considerarsi Paesi di serie C, e che il passaggio alla serie B avrebbe richiesto molto tempo; figuriamoci la serie A. Questo ha comportato un immediato e profondo sentimento di disincanto nelle opinioni pubbliche di quei Paesi nei confronti dell’Europa”.

Adesso, forse, è più chiaro il quadro di quanto è accaduto e di ciò che potrebbe accadere in futuro a causa di errori per i quali nessuno ha chiesto scusa, nessuno si è assunto le proprie responsabilità e ai quali nessuno si è ancora preoccupato di porre rimedio. Il guaio è che oggi la marea nera sta travolgendo tutto e, oltre a non avere più tempo, probabilmente, non abbiamo più nemmeno la forza, la credibilità e l’autorevolezza per arginare questa corsa verso l’abisso della quale pochi hanno compreso davvero l’impetuosità e la furia devastatrice.

 

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