Conversazioni sul finire del tempo o del senso della Biennale nell’incontro con Gastón Ramírez Feltrín

VENEZIA – A pochi giorni dalla chiusura della 56.ma Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, tentiamo di tirare le fila di quanto è accaduto in quest’ultima edizione, guardando al lavoro del curatore, alla ricerca di una chiave di lettura della contemporaneità non solo artistica e culturale ma anche sociale.

Il lavoro di Okwui Enwezor, critico e curatore nigeriano di nascita ma statunitense di adozione, mantiene saldo in tutto il suo percorso un taglio socio-politico, ancorando la sua ricerca alle radici africane con l’obiettivo di svilupparla in una prospettiva storica e internazionale.

In occasione della mostra veneziana si è concentrato sul tema del futuro dell’umanità. All the World’s Futures è il titolo del suo progetto espositivo che, prendendo idealmente le mosse dall’opera Angelus Novus di Paul Klee nella lettura di Walter Benjamin, intende spingere lo sguardo del visitatore oltre le macerie del progresso verso il futuro, ma nell’imprescindibile osservazione dell’oggi.

Sulla carta la Biennale si è mostrata subito interessante, alla visita però sono emerse alcune titubanze; dal gran numero di opere esposte – di certo ad ogni edizione aumentano come a placare una certa fame allestitiva – emergono alcune tematiche forti, talmente aderenti alla contemporaneità e rispondenti alle diffuse esigenze umane e sociali, da ritornare in molti dei Padiglioni nazionali: il tema della natura, ad esempio, della sua distruzione o della necessità della sua conservazione. E il conflitto sociale, la guerra e la morte ma con speranza di rinascita…

Sfugge, però, la visione d’insieme del curatore; il pensiero complessivo è sommerso dalle molte tematiche, tutte guidate dalla identità africana in primo piano, che appare al visitatore occidentale come rivendicazione di orgoglio nero frammista alla volontà previsionale di un superamento della sempiterna visione eurocentrica o “americocentrista” (mi si passi il termine).

Un aspetto sicuramente interessante è lo slittamento sottile che talvolta si percepisce tra il piano individuale e quello collettivo, che rende l’aspetto politico più incisivo. Basti pensare al video di Christian Boltanski “L’Homee qui tousse”, 1969, metafora della condizione umana.

In occasione della visita abbiamo incontrato l’artista messicano, oramai veneziano, Gastón Ramírez Feltrín, già commissario del Padiglione del Messico nelle passate edizioni della Biennale. Proprio con lui, che nella sua ricerca artistica si muove sul doppio piano della sfera personale e della pubblica/politica, viene naturale affrontare il sempre cruciale e dolente approccio curatoriale alla Biennale.

Ogni volta la Biennale si propone con titoli che definirei omnicomprensivi, grandi cappelli sotto i quali far rientrare tutto il possibile, grandi possibilità di sviluppo curatoriale o trappole accattivanti per il visitatore. In questo caso il futuro o i futuri del mondo in effetti segue questa via. Confesso che non colgo la visione di Enwezor….

Gastón Ramírez Feltrín: Infatti i titoli delle mostre e la tendenza ad etichettarle sotto il brand di un curatore francamente mi hanno sempre lasciato perplesso, non solo perché gli impianti concettuali, storici e dialettici sono scelti arbitrariamente dal curatore (per cui non potranno mai includere tutta la complessità del nostro tempo anche se molte volte lo pretendono), ma anche perché a mio avviso i titoli (e anche le mostre), fanno parte, sempre più spesso, d’una strategia di comunicazione che ha come obiettivo attirare l’attenzione del grande pubblico “pagante”, consumatore di “alta cultura”. Basti pensare alle ultime edizioni della Biennale. Da “La platea dell’Umanità” come preludio alla “Dittatura dello Spettatore”, che senza sforzo passa “Sognando Conflitti” per vivere “L’esperienza dell’Arte”, “Sempre un po’ più Lontano” “Pensando con i sensi, Sentendo con la Mente2 per “Fare Mondi”, con l’aspettativa di vivere “ILLUMInazioni” dentro un “Palazzo Enciclopedico” che contiene “Tutti i Futuri del Mondo”…

Ma insomma, qualcuno si è chiesto se il curatore Szeemann – cavalcando i profondi cambiamenti culturali ed istituzionali di quelli anni – abbia veramente aperto un dibattito che Bonami (invitando altri curatori ad interloquire), ha cercato di allargare forse per capire come muoversi secondo le nuove regole, e se di conseguenza Corral e Martinez abbiano trovato delle risposte? O se la deriva un po’ romantica e tanto autoreferenziale, che partendo da Storr e seguita da Birnbaum (con l’aggiunta di un po’ di sufficienza) non abbia portato Gioni a sviluppare una proposta educativa e descrittiva che fosse molto gradita soprattutto al grande pubblico? A distanza di 6 anni le domande poste da Birnbaum vengono tenute in considerazione, messe in discussione o risposte da Enwezor? Ancora, non è che alla fine tutti questi presunti dialoghi sono fine a se stessi perché si svolgono sempre all’interno d’un ambiente molto regolato, il cui sistema dialettico è fortemente autoreferenziale, che condivide regolarmente gli stessi presupposti e soprattutto che dipende dall’incremento esponenziale di visitatori paganti biglietto?

Di certo non ho le capacità per rispondere quesiti di questo genere, ma credo non si possa tralasciare che, passare dai 243,000 visitatori del 2001 ai 475,000 del 2013 (ed il conseguente incremento degli introiti), sicuramente condiziona molte più cose che la figura del curatore della Biennale; senza dimenticare che questa era partita dal presupposto di creazione d’uno spazio di rappresentazione nazionale che oggi non ha più senso (si pensi solo a quanto risulti anacronistico avere Padiglioni nazionali in una mostra internazionale che si svolge su un terreno in cui, da diversi decenni, si parla d’integrazione e unità e dove sarebbe più coerente avere semmai un Padiglione Europa). E non si può non considerare che questa stessa mostra vede sovrapposti i soliloqui di tanti curatori che cercano di formare un albo temporaneo che si rinnova ogni anno e che allarga il club dei privilegiati partecipanti al ballo veneziano più importante dell’anno (proprio per la visibilità). Da quanto non ci stupisce la Biennale, dagli anni di Aperto?

Trovo molto interessante la tua idea di dialogo (auspicato e auspicabile) tra curatori e mostre, in effetti non avevo mai pensato a questa prospettiva. Trovo che però perché questo accada, ogni volta la Fondazione La Biennale dovrebbe fare una scelta del direttore in quest’ottica, trovando un curatore per sua natura o ricerca pronto al confronto dialettico. In ogni caso non mi disturba, ed anzi trovo naturale, che ogni curatore sviluppi ulteriormente la propria ricerca in sede di Biennale; in tal senso ho apprezzato la mostra di Massimiliano Gioni nel 2014 che –  pure nell’occhieggiare al grande pubblico (la Biennale non  deve essere solo per gli addetti ai lavori) – nel tentativo di abbracciare tutto lo scibile enciclopedico ha seguito una linea metodologica e critica precisa, e d’altronde “gli effetti” sono visibili nella mostra La Grande Madre ora alla Fondazione Trussardi a Milano. Ciò che contesto a Enwezor è proprio questa mancanza, la stessa che ravvedevo nella maggior parte dei curatori da te citati. Mi pare che la Biennale produca una ansia da dimostrazione che a sua volta porta a perdere di vista l’obiettivo comunicativo. Insomma dalla lettura di un libro pretendo di capire il pensiero dell’autore. Da una mostra lo stesso. Da una Biennale pretendo questo e che emerga uno spaccato del mondo. Che hai visto tu del futuro?

 Infatti, la mia analisi sul dialogo non era tanto rivolta all’istituzione Biennale quanto al singolo curatore scelto che sembra non tenere in conto quello che il precedente ha sollevato, anzi, trovo che ogni proposta (come dicevo prima, a volte nella arrogante autoreferenzialità) includa alla fine le stesse figure in ordine diverso, come un giocatore di domino che gioca ogni volta un gioco apparentemente nuovo con le stesse pedine. Cerco di spiegarmi meglio: guardando attentamente le opere e gli artisti chiamati a partecipare nelle ultime Biennali, troveremo che molti artisti vengono più o meno sempre inclusi, nonostante il “taglio” curatoriale sia diverso (non ricordo ora se la stessa opera dello stesso artista sia stata presentata in due edizioni della Biennale, tu ricordi qualcuna?), il che mi fa pensare a due cose: la prima che esista una tendenza curatoriale a distinguersi del curatore precedente (e quindi non sollevare argomenti toccati in precedenza e non fare né rispondere domande in relazione alle edizioni precedenti) nonostante si adoperi la stessa materia (il lavoro degli artisti), la seconda che la materia (cioè le opere create dagli artisti) sia suscettibile di adeguarsi ad ogni discorso curatoriale. Io credo che ogni artista (ogni creatore insomma) possa avere diversi interessi e produca anche delle opere trasversali, cioè che si discostino dal suo soggetto ricorrente e possano in qualche modo toccare e adeguarsi (fit in) in discorsi più ampi, ma rimango perplesso quando, visitando una mostra, trovo alcune opere che non hanno niente a che fare con il concept ed il titolo e che fatico a capire i “perché” della scelta del curatore nel includerle. 

Sono d’accordo con te riguardo alla mostra di Gioni anche se, conoscendolo, mi sarei aspettato più dirompenza (se si può dire cosi), nel senso che essendo tra i curatori più giovani e preparati, l’approccio alla sua mostra, pur metodologicamente ineccepibile, non sia stato cosi contundente da poter mettere in discussione il sistema dell’arte (che secondo me non può non essere in crisi e discussione quando il complesso delle “realtà” globali sta cambiando cosi vertiginosamente, che non sappiamo dove andremo a finire), bensì ha contribuito a mantenere in vita ancora per un po’ il vecchio paradigma di cosa è l’arte e come si deve fare una mostra.

Potrei essere d’accordo con te sull’idea di conoscere il pensiero dello scrittore attraverso la sua scrittura, ma qui parliamo del lavoro dei curatori (che faccio fatica da sempre a vedere come autori), quindi penserei piuttosto allo spaccato di mondo visto e proposto da quel determinato curatore…

Forse può suonare scontato ma secondo me non lo è, se hai tempo prova a dare un’occhiata a questo testo che ho scritto molti anni fa:

 HYPERLINK “http://favelapavilion.net/text/il%20progetto%20favela/sull’idea%20di%20autore.htmhttp://favelapavilion.net/text/il%20progetto%20favela/sull’idea%20di%20autore.htm

Sono d’accordo con te che il concetto moderno di autore sia superato ma non posso non considerare e valutare che nel proporre la sua visione del mondo, il curatore stesso esprima un pensiero personale, magari condiviso o condivisibile, frutto – come giustamente affermi nel testo proposto – di una consapevole o inconscia influenza del proprio background culturale e di quello collettivo. Ma, se nella sua proposta non vi è o non traspare una analisi personale, nasce una questione, io credo: Che cosa è un curatore? Quale il suo ruolo?

Che cosa è dunque una mostra? E che cosa è la Biennale di Venezia, a maggior ragione, nel suo dover proporre l’arte degli ultimi anni e i cambiamenti inevitabili che questa produce e/o riflette? Seppur la sua “mission” sia appunto tradita ogni volta dalla presenza di opere viste, riviste e straviste, come giustamente sottolinei…

Le tue ultime domande mi fanno pensare che forse anche la nostra discussione gira intorno ad argomentazioni già superate e fa parte dello stesso sistema stravolto dai mille cambiamenti provocati dalla cosiddetta rivoluzione industriale 4.0…

Da When attitudes become form – giusto per chiudere questa partita tornando alla famosa mostra di Harald Szeemann –  e il conseguente sviluppo del sistema dell’arte (occidentale, perché ormai è chiaro che l’estetica sviluppata da allora, più o meno in tutto il mondo, corrisponde per lo più all’occidente…), si è creata la aspettativa di assistere ad eventi dove la capacità e preparazione dell’autore curatore riuscisse a mettere insieme opere che in qualche modo rispondevano allo stesso “stimolo”, cioè opere che artisti diversi avevano creato come riflesso alle stese dinamiche, problematiche, interessi, ecc. e quindi mettendole insieme il curatore poteva rinchiudere dentro una mostra quel pezzo di realtà, di vita, di umanità in modo schematico, collegandolo pure con il pensiero critico filosofico del tempo.

Forse in quel momento storico il curatore era proprio quell’amministratore di conoscenze di cui parlavo nel mio scritto, ed il suo ruolo era proprio quello di offrire un ordine ed una corrispondenza a quello che gli artisti producevano. Oggi credo che sia molto difficile riuscire ad avere quel ruolo, non perché non si sia più capaci o perché il sistema (occidentale come sostengo) dell’arte si sia cosi allargato da non poter incastrarlo più, ma proprio perché l’arte in sé ha rotto le briglie ed è cresciuta in modo esponenziale, basti vedere i fenomeni comunicativi della rete, da youtube a instagram…

Mi diverte pensare cosa avrebbe potuto fare FLUXUS, con tutte queste possibilità a disposizione, e se mai l’avrebbe vissuto come il terreno più fertile mai esistito per la creazione artistica oppure il peggiore incubo di entropia culturale…

Trovo che sia molto difficile proprio perché dagli anni ‘60 ad oggi – soprattutto negli ultimi 20 anni – abbiamo assistito a una crescita esponenziale di ogni cosa e ad una standardizzazione generale (più o meno forzata dal sistema capitalistico), ma contemporaneamente ad una atomizzazione della realtà e ad un rafforzamento delle differenze, il che porta a pensare che, al giorno, d’oggi trovarci davanti ad un titolo come All the World’s Futures ci delude automaticamente perché sappiamo che la mostra non potrà mai rispondere a sufficienza le aspettative create dal titolo e sarà solamente un pezzettino della visione limitata del curatore. In fin dei conti, siamo veramente cosi interessati a capire e scoprire cosa passa per la testa di uno studioso chiamato a curare una mostra come la Biennale? Vale la pena tutto il dispendio di forze, energie, mezzi, soldi ecc. per fare una mostra come la Biennale per questo motivo, cioè, capire cosa intende quel determinato curatore? Credo di no.

Che una mostra sia fallimentare nella sua prospettiva di esaustività mi pare scontato, ma d’altronde non credo si possa richiedere ciò a nessun curatore. Troverei invece interessante raccogliere degli spunti di riflessione da studiosi (mi piace e condivido la tua definizione di curatore), con ambizioni e provenienze culturali diverse. Certo parlare di diversità in questo periodo storico e nel sistema ufficiale dell’arte fa un po’ sorridere (nonostante il tuo giusto riconoscere la tendenza, in assoluto, al rafforzamento delle differenze) ma questa prospettiva africana di Enwezor mi faceva ben sperare. Peccato sia stata tradita dalla presenza di un’ufficialità consolidata anche nella scelta di artisti che, ancora una volta, fanno parte del gotha dell’arte, occidentale e di mercato, in questo caso con l’aggravante dell’essere “mascherato”.

E neppure ho riconosciuto nel linguaggio curatoriale quell’alterità di pensiero e di espressione che alcuni artisti latinoamericani sostengono sia alla mia base della mia non comprensione. Ho, di contro, trovato un curatore occidentale, abituato a leggere e parlare e tradurre un linguaggio internazionalmente condiviso che, si, in questo caso non soddisfa il mio bisogno di nuova conoscenza che –forse hai ragione –  la biennale così impostata non sembra più in grado di darci. Ma non voglio immaginare un mondo senza la Biennale di Venezia.

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