L’Ulivo vent’anni dopo

ROMA – Sono trascorsi esattamente vent’anni da quell’indimenticabile notte del 21 aprile 1996, quando il progetto dell’Ulivo, fortemente voluto dal professor Beniamino Andreatta, con Romano Prodi sulla plancia di comando, vinse le elezioni contro il Polo delle Libertà guidato da Silvio Berlusconi, favorendo lo storico approdo al governo degli eredi del PCI.

Del mondo di allora non è rimasto praticamente nulla, e questo è il punto sul quale farebbero bene ad interrogarsi tutti coloro che vivono con crescente imbarazzo il clima politico che si è venuto a creare.

Perché sulla necessità di un nuovo progetto ulivista, dotato di una solida cultura di centrosinistra e capace di assumersi le proprie responsabilità e di governare senza populismo né demagogia ci siamo interrogati mille volte; ciò di cui non abbiamo ancora discusso è chi dovrebbero esserne gli interpreti.

Se la minoranza dem si illude di poter costruire un nuovo progetto ulivista all’interno del PD, per dire, è fuori strada. Il PD renziano è già da tempo il Partito della Nazione, sostenuto in pianta stabile da Alfano alla Camera e da Verdini al Senato, disposto ad ogni operazione trasformista pur di mantenersi a galla e talmente sordo a quella “questione morale” tanto cara a Berlinguer che ormai l’uomo di Rignano può lasciarsi andare impunemente a discorsi che nemmeno il Berlusconi dei tempi d’oro.

Del resto, lo ha detto bene, in più di un’occasione, la senatrice verdiniana Manuela Repetti, compagna dell’ex coordinatore pidiellino Sandro Bondi: Renzi altro non è che il prosecutore naturale del progetto di Forza Italia, dunque noi ci sentiamo a casa nostra. Come dar loro torto! 

Il nostro eroe, in questi due anni, non ha fatto altro che prendere il programma del PDL e applicarlo alla lettera: riforma della Costituzione, Italicum, Jobs Act, Sblocca Italia, Buona scuola e adesso sta ripartendo l’offensiva contro i magistrati sul versante delle intercettazioni e della loro pubblicazione, in un eterno “giorno della marmotta” che, però, ha visto cambiare i propri interpreti o, per meglio dire, aggiungersene di nuovi. Se prima a proporre tutto ciò erano, infatti, gli Alfano e i Verdini, oggi nel fu Partito Democratico è al potere una classe dirigente di quarantenni nati e cresciuti nel contesto storico del craxismo e del berlusconismo che non solo non si indigna al cospetto di certe proposte ma, al contrario, le condivide pienamente, considerandole sacrosante. 

D’altronde, a pensarci bene, non poteva che finire così. Dopo vent’anni trascorsi a ripetere il mantra stucchevole della fine delle ideologie, e a gloriarsi di questa solenne idiozia che sottintendeva unicamente il progressivo asservimento della sinistra al pensiero unico liberista, dopo vent’anni nei quali opinionisti, commentatori e persino numerosi accademici hanno instillato nell’opinione pubblica l’idea che destra e sinistra siano concetti ormai superati e che si debba distinguere fra cose giuste e cose sbagliate (come se qualcuno avesse il potere di decidere, in base a non si sa quale illuminazione divina, ciò che è giusto e ciò che non lo è e come se non esistesse una visione del mondo rispettabile e degna di ascolto tanto a destra quanto a sinistra), dopo vent’anni nei quali la sinistra è stata subalterna in tutti i settori, da quello economico a quello giudiziario e finanche sul delicatissimo tema dell’immigrazione, davvero qualcuno si sorprende per l’accettazione supina delle larghe intese “sine die”? Davvero non è ancora chiaro a tutti che Letta è stato defenestrato dal Partito Democratico non perché non avesse l’animo di un convinto riformista ma perché era dell’idea, al pari dei suoi maestri Prodi e Andreatta, che il governo di grande coalizione dovesse essere un’eccezione e non trasformarsi in una consuetudine? Davvero non è chiaro a tutti che Prodi e Rodotà non sono stati eletti al Quirinale perché erano gli unici due candidati che avrebbero mandato Bersani di fronte alle Camere e ribadito espressamente che un Paese deve respirare con due polmoni e che, pertanto, l’esperienza montiana bastava e avanzava?

Ciò che purtroppo noi romantici non avevamo capito sin dal 2012 è che anche il PD bersaniano era ormai, di fatto, più che renzizzato, con una cospicua fetta dei suoi gruppi parlamentari e della sua classe dirigente che sostenevano apertamente l’ipotesi di un Monti bis o, comunque, di una trasformazione della cosiddetta “Agenda Monti” nel programma del partito, senza rendersi conto che il Paese chiedeva e aveva bisogno dell’esatto opposto.

Non avevamo capito niente, come al solito: ci era sfuggito del tutto il desiderio di cambiamento, di pulizia e di rinnovamento radicale che animava milioni di cittadini, dagli otto e passa milioni che nel febbraio del 2013 si affidarono al M5S ai milioni di elettori che si divisero fra l’astensione e la scelta, sia pur sfortunata a livello di consensi, di Rivoluzione Civile di Ingroia.

E mi sembra incredibile il fatto che sia stata, ancora una volta, la Repetti a ribadire ieri in Aula una sacrosanta verità, ossia che il M5S, almeno sul versante sinistro (che non è piccolo), altro non è che l’evoluzione politica di quel vasto popolo dei Girotondi, delle Agende Rosse, delle manifestazioni per la legalità, per l’onestà e in difesa dell’ambiente, delle decine di piazze anti-berlusconiane, dei referendum sui beni comuni, contro il nucleare, contro il legittimo impedimento e ancora il popolo che si è sempre battuto contro censure, bavagli, editti bulgari e altre aberrazioni. Ma è mai possibile che ce lo debba dire la Repetti? È mai possibile che nessuno, a sinistra, si sia alzato in piedi per risponderle: “Sì senatrice, lei ha ragione e fanno bene ad esserne orgogliosi”? Se ciò non accade è per un motivo molto semplice: dovremmo, difatti, riconoscere che quel movimento altro non è che la cartina di tornasole dei nostri innumerevoli errori: disertare le piazze, evitare il confronto franco e aperto con i movimenti e le associazioni di cittadini, rinchiuderci nei palazzi, trattare “l’Unità” di Colombo e Padellaro che si sforzava di dar loro voce come una sorta di nemico, al pari di Berlusconi, distanziarci sempre di più dai valori storici della sinistra e rinnegare, di fatto, anche la matrice ulivista, berlusconizzandoci sempre di più strada facendo. 

Da qui la sfiducia generalizzata di milioni di persone che pure un tempo si riconoscevano negli ideali della sinistra, da qui il disincanto, da qui la rabbia e da qui il lento dilagare di questo “mostro” che nel 2010 riuscì a superare il 7 per cento in Emilia Romagna, nel 2012 espugnò Parma ed arrivò primo in Sicilia e nel 2013 arrivò primo alle Politiche.

Diciamo che Bersani, a modo suo, sia pur tardivamente, aveva capito in quale direzione si dovesse andare per evitare che il Paese deragliasse o imboccasse i binari del peggior conservatorismo: offrì un governo del cambiamento che i nostri amici stellini avrebbero fatto bene a sostenere, salvo poi scoppiare al momento dell’elezione del capo dello Stato, bocciando l’ottima proposta di Rodotà (la cui unica colpa è quella di essere un vero uomo di sinistra che avrebbe, quindi, spaccato a metà un partito che, come detto, era già in larga parte renziano) e tirando fuori Prodi alla disperata, senza concordarlo con nessun’altra forza politica e subendo il tradimento dei centoventi soggetti che volevano ad ogni costo la riproposizione delle larghe intese e la rottura di ogni possibile accordo con il mondo stellino.

Al che, vent’anni dopo, vien da dire che se davvero vogliamo tornare ad innalzare la fiaccola dell’Ulivo, non possiamo che ripartire da uno schema indicato proprio da Bersani: riformisti, socialisti e movimenti. Sui riformisti pochi dubbi: si tratta della minoranza dem. Sui socialisti ancor meno: è Sinistra Italiana. Sui movimenti, invece, bisogna avere il coraggio di dire apertamente che, oltre a Civati, bisogna coinvolgere in questo progetto quell’ampia fetta dei 5 Stelle che difficilmente accetterà ancora a lungo questo isolazionismo forzato che non produce alcuna cultura di governo e garantisce a Renzi un’autostrada in vista delle prossime elezioni.

Continuare a pensare che quel movimento sia composto unicamente da populisti è offensivo e fuorviante, così come sarebbe assurdo pensare di poter ricostruire un progetto politico credibile con i superstiti di mille battaglie e ignorando la freschezza e l’entusiasmo di una classe dirigente giovane e di qualità e, soprattutto, le scelte di milioni di elettori.

Vent’anni dopo bisogna ripartire da lì: da quel miracolo che consentì al centrosinistra di ritrovarsi unito, di tenere insieme la testa e il cuore, l’anima e il realismo politico, prima che i personalismi, le brame di potere dei singoli e la scarsa lungimiranza dei tanti che ebbero paura di mettere le ali a quell’intuizione facessero piombare l’Italia in un baratro dal quale non siamo ancora usciti.

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