L’approfondimento. Quanto incide la Rivoluzione digitale del XXI secolo sulla politica? Intervista a Sergio Bellucci

Quale ripercussioni della rivoluzione  digitale del XXI secolo incombenti sull’assetto sociale e politico europeo?

Il digitale rappresenta più che una rivoluzione, rappresenta un passaggio di paradigma. Per alcuni versi è molto più profondo di qualsiasi cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea politica. Dall’altro sembra che possa riproporre una dialettica tra le classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato, egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di sfruttati. La metafora creata da Occupy Wall Street è la più  efficace: l’1% contro il 99% del mondo.

Quali cambiamenti ha apportato sulla nostra società e sullo scenario politico?

È cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto. E la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande, da nuove richieste di partecipazione e di decisione. L’avvento della rete pone, da tempo, la questione di un rapporto diverso tra l’idea della democrazia diretta e delle forme della rappresentanza. Lo scrissi nel 1997 nel saggio sulle forme della politica e l’avvento di Internet quando in Italia discutemmo della nostra Costituzione e dei Poteri, un importante convegno del Partito della Rifondazione Comunista.

Come si sono trasformati il  mondo della produzione e  del lavoro? 

Beh… molti hanno pensato che la rete, il digitale riguardasse le forme dello scambio comunicativo, che fossimo nell’ambito della libertà di espressione, del diritto a comunicare ed essere informati. Ma questi aspetti sono solo quelli più eclatanti, non quelli “strutturali”. La grande trasformazione digitale, come accade sempre all’interno delle società capitalistiche, riguarda il lavoro e la valorizzazione del capitale. Solo che la sinistra non ha voluto vedere ed è restata ferma agli schemi validi a metà del secolo scorso. Il risultato è che la sinistra è su un binario morto da un trentennio e chi si occupa di innovazione è senza la bussola di ciò che significa socialmente e produttivamente il digitale. Forse è arrivato il momento per un incontro fecondo. Ma per farlo c’è bisogno di un salto di qualità.

Quali sono i nuovi  problemi  che affiorano per la politica della sinistra?

Infatti di questo parlo. Da un lato, quello della sinistra, c’è bisogno di un quadro teorico nuovo e di nuovi gruppi dirigenti che sappiano comprendere e analizzare le nuove forme del capitalismo digitale e dall’altro, da parte dei movimenti che si sono poggiati sull’innovazione, l’abbandono del determinismo tecnologico, dell’illusione che la tecnologia risolva tutto, che all’interno della tecnologia ci sia la salvezza. Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà da entrambe i lati.

Lei è stato prima nel Partito Comunista Italiano e poi un importante dirigente del Partito della Rifondazione Comunista e Presidente del quotidiano di partito Liberazione. Secondo Lei ha senso di  parlare, ancora oggi, di destra e di sinistra in uno scenario sociale ed economico così diverso da quello a cui noi tutti eravamo abituati al tempo in cui il Suo partito lottava contro le ineguaglianze sociali per una nuova forma di comunismo in liberta?

La trasformazione incessante delle nostre società  ha cambiato, anzi forse aggravandole, le questioni di fondo inerenti le diseguaglianze sociali così come anche inasprendo la lotta già esistente tra i potenti e i  deboli, di chi sta in alto su chi sta in basso, degli sfruttatori sugli sfruttati. Ma tutto lo scenario che abbiamo davanti è completamente diverso dalle geografie che abbiamo prodotto con il pensiero dell’800 e del ‘900. Non che quelle analisi siano tutte da archiviare, ma quello che serve oggi, è capire quello che è cambiato per adeguare le scelte politiche ad una nuova situazione economica sociale e politica,  il tutto mantenendo salda una capacità di critica e la linea di ricerca onde saper cambiare tutto quello che non funziona più, che è diventato o obsoleto o ha perso la “spinta propulsiva” per dirla con Enrico Berlinguer.

A mio avviso nel ‘900 si sono prodotti tre grandi cambiamenti che gli occhiali otto-novecenteschi della sinistra hanno avuto difficoltà a vedere e poi a comprendere. La prima grande trasformazione è stata quella dell’impatto delle tecnologie digitali nel mondo del lavoro. Il lavoro investito dalle potenzialità delle tecniche digitali è stato ridescritto totalmente. Ma non si è liberato. Anzi. Io sostengo che il passaggio che abbiamo vissuto nell’ultimo ventennio del secolo scorso è stato quello della evoluzione del processo tayloristico. Per trent’anni, a sinistra, abbiamo discusso se la fabbrica fosse terminata, finita oppure no. Molti hanno chiamato queste nostre società post-industriali quando, in realtà, la nuova forma industriale che si stava generalizzando, in modo ancora più pervasivo di quanto non avesse fatto quella del periodo fordista, conquistava anche le forme più relazionali della vita. Io ho chiamato questa trasformazione, nel mio libro E-Work. Rete, Lavoro, Innovazione, il passaggio dal taylorismo fordista al taylorismo digitale.

Può  spiegarci che cosa è il taylorismo digitale e se questa nuova forma di capitalismo presenta dei pericoli per i margini di autonomia di cui godeva la persona umana prima dell’avvento di questa nuova forma di capitalismo?

Il taylorismo digitale è la teoria della nuova forma del taylorismo conseguente le innovazioni introdotte nella organizzazione del lavoro dalle tecniche digitali. 

Il primo cambiamento avvenuto è che le forme del taylorismo  – cioè la parcellizzazione, la cooperazione e il controllo del ciclo produttivo –  vengono portati alle loro estreme conseguenze. Per quello che è possibile si smaterializzano all’interno del software   diventando così come “neutre”, al punto che il sottostare alle logiche del processo produttivo appare come un dato naturale. La sottomissione della persona alle necessità del ciclo produttivo, del sistema macchinico al quale è sottoposto nella produzione diviene non solo molto più estesa, ma in qualche modo più “oggettiva”. È come se le persone fossero spinte ad adeguarsi alle performance richieste dalla produzione ancor più che in passato, con una riduzione sia di capacità critica sia di possibilità rivendicativa. Una situazione sicuramente peggiore dal punto di vista dell’autonomia individuale e umana.

La qualità tecnologica del digitale è diversa da quella di altre tecnologie umane perché interviene sul processo comunicativo, sul processo di scambio e valutativo dell’informazione. Le tecnologie digitali sono tecnologie relazionali e mutano le forme delle relazioni umane, arrivando a ridescrivere addirittura le forme delle strutture cognitive degli individui. Per dirla con un’affermazione, le forme dei processi sociali di relazione (tra gli individui e i gruppi) e le forme dei processi produttivi (a prescindere dalle vecchie divisioni della prima era industriale pre-digitale) tendono a coincidere. Man mano che il digitale si estende nella sua presenza nel corpo della società, le forme sociali e le forme produttive divengono sempre più simili.

Diciamo che il lavoratore di oggi non vive la percezione del processo di alienazione come accadeva in passato. Prima la differenza tra le 8 ore in fabbrica e le 8 ore di vita era totale. Oggi la forma del lavoro e quella del tempo libero tende a coincidere. Si producono e controllano le relazioni con i nostri amici esattamente come si produce e si controlla la macchina che produce o il servizio che si genera. Tutto passa per un device che ci interfaccia con la cosa che dobbiamo fare, la relazione che dobbiamo curare.

Si tratta di un processo che ha mantenuto, anzi esteso, il controllo del potere preesistente. Il punto di comando che dirigeva i processi politici e sociali si è rafforzato.

Il taylorismo digitale ha quindi prodotto un arretramento delle condizioni lavorative?

Il taylorismo digitale oltre ad essere più pervasivo di quello esistente nella fase meccanica, ha indebolito le strutture difensive che il movimento operaio si era conquistato con lotte faticose. Con una risposta breve potrei dire solo, si. Ma in realtà le cose non stanno semplicemente così. I processi, per fortuna o per sfortuna, sono sempre più complessi. Da un lato si è diffusa una vulgata, anche  a sinistra, che afferma che la fase che stiamo vivendo sia un semplice “arretramento” rispetto alle conquiste del secolo scorso. Ma non è così. La storia non torna mai indietro, anche quando le sconfitte segnano dei punti di non ritorno. Lo sfruttamento dell’era digitale non è quello dell’era meccanica. Può essere anche più pervasivo e totalizzante, e necessita di una critica e di un conflitto di nuova generazione, ma apre a potenzialità nuove sia di conflitto di tipo classico, sia in forme di riorganizzazione della vita, della produzione, delle relazioni che nel secolo scorso potevamo tenere nella sfera dell’utopia. Ma per fare questo c’è bisogno di saper guardare oltre quello che immaginavamo ieri. Chi pensa di riproporre gli schemi che hanno funzionato un secolo fa è come se, all’inizio del ‘900, qualcuno avesse proposto un processo di liberazione e modalità di conflitto utili nell’era dello schiavismo. Era nel giusto, dal punto di vista del principio, ma totalmente fuori tempo massimo per i processi che il capitalismo aveva generato.

Lei ha parlato prima di tre  trasformazioni… Che cosa intende al riguardo?

Quella del lavoro e del taylorismo digitale (che tra l’altro sta evolvendo velocemente verso esiti ancora più alti di innovazione dei processi di organizzazione del lavoro) è solo la trasformazione socialmente più rilevante. Gramsci, nelle pagine dedicate ad Americanismo e Fordismo, affermava che il fordismo forgiava l’uomo di cui aveva bisogno. Con quelle parole ci annunciava una verità sempre più fondamentale per le forze che si propongono delle trasformazioni politiche consapevoli e profonde. Gramsci ci diceva che il processo produttivo forgia l’umanità di cui ha bisogno. Produce una cultura, un ambiente, una società atta a “sopportare” lo schema della produzione imperante in quella fase. Ma in quella fase la differenza tra lo schema delle ore di lavoro e quello delle ore della socialità era ancora diverso. Il digitale sta producendo un “ambiente unico”, uno schema totale. Nuove forme di lavoro che non esistevano in precedenza e che la sinistra e in particolare gli economisti della sinistra, non riescono né a vedere né ad inserire nei loro schemi del ‘900. Penso ad esempio a quello che io chiamo il Lavoro Implicito e di cui ho parlato sempre nel mio E-Work. Insomma la trasformazione non è puntuale ma sistemica. Ho chiamato questo schema che sta emergendo come il processo di “terraformattazione capitalistica” del pianeta. E per questo serve uno schema “complesso”…

Ho preso al riguardo in prestito un neologismo dagli scienziati spaziali. Gli scienziati che si occupano dei viaggi spaziali e della possibilità di vivere su altri pianeti, infatti, hanno coniato questo termine per indicare tutte le cose che vanno compiute per trasformare l’ambiente di un pianeta per renderlo abitabile dall’uomo. È quello che stanno pensando di fare con Marte… 

E quindi il capitalismo starebbe facendo una cosa analoga con la Terra?

Quello che è in atto è proprio un processo di produzione di un ambiente “totale” all’interno del quale l’uomo deve vivere.  Tutto quello che non è all’interno del processo di valorizzazione del capitale semplicemente… non serve, diviene uno scarto. E paradossalmente questo coincide sempre più con il processo di digitalizzazione del mondo. Tutto quello che non può essere digitalizzato è uno scarto perché sfugge al processo di totale controllo che si sta generalizzando nel mondo. Perché pensa che si stia lavorando alle Smart Cities? 

Perché serve estendere il controllo dei processi di scambio che avvengono, istante per instante, nelle e fra le vite delle persone. Solo così sarà possibile continuare a valorizzare il capitale circolante. Tutto ciò che non è matematizzabile diviene un orpello, un peso, uno scarto. Ma questo attiene alla seconda novità del capitalismo di questo secolo.

Cioè, la seconda delle tre novità di cui hai parlato in precedenza?

Esatto. È il punto estremo della novità, quello sul quale il capitale sta lavorando in questi anni. Tutto è iniziato con la possibilità di smaterializzare il ciclo produttivo e introdurre una nuova forma di merce, quella immateriale. 

Merce immateriale, è quello di cui Lei ha parlato nel  libro Lo spettro del Capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza?

Non solo merce immateriale. Con essa, infatti, si è prodotto un ciclo produttivo totalmente nuovo, il ciclo immateriale. La prima grande applicazione di tale processo è proprio la smaterializzazione della moneta. Il capitale finanziario, quando ha incontrato il digitale, si è trasformato, si può dire che è diventato adulto ed esteso la sua potenza sul mondo. Ma ciò che è pervasivo ancor di più è la  logica sottostante, la logica che ha abilitato la trasformazione della finanza. Questa logica, infatti, riesce ad innervare tutti i processi ed estendersi al resto della vita. Appunto “terraformattando” il pianeta. 

Il ciclo legato alle potenzialità del digitale è un ciclo che può avere bisogno di un supporto fisico sempre più marginale. La moneta è addirittura arrivata ad avere smaterializzato oltre il 90% della sua forma esistente. Ma il ciclo immateriale riguarda flussi di comunicazione destinati agli umani, flussi di informazione necessari alla produzione di altre merci materiali o immateriali che siano. 

Paradossalmente tutto diviene merce e tutta la nostra vita diviene lavoro. Anche quando le persone non ne sono consapevoli. Appunto come accade con il lavoro implicito. Ogni nostro atto nell’ambito della vita inserita nell’era digitale diviene un atto di produzione di informazioni e, quindi, di un valore sul mercato digitale. Il mondo dei Big Data, l’estrazione di informazioni sui nostri comportamenti, di vita, di consumo, di lavoro, è uno dei grandi business che cresce ogni anno a due cifre. I sindacati dovrebbero interrogarsi su come è cambiato il lavoro e provare a produrre conflitti di nuova generazione altrimenti rischiano una sconfitta strategica.

La produzione immateriale cambia lo scenario del lavoro, quindi?

Il digitale sta abilitando un mondo diverso dal precedente. Il passaggio è un passaggio di paradigma. Molto più di una semplice “rivoluzione”. Ma tutto questo si intreccia con una novità ulteriore.

Nel ‘900, proprio durante la grande crisi del ’29, si forgiò una  novità che ha innervato tutto il secolo e che rappresenta una novità storica impressionante. In quegli anni, negli USA, nacque quella che io chiamo l’Industria di Senso. L’industria che lavora nella produzione del “senso della vita”, la modalità con la quale noi percepiamo “naturale” vivere con lo schema del modello di consumo che troviamo nei supermarket di tutto il mondo. 

Quindi il cerchio si sta chiudendo?

Dipende dalle forze che vogliono continuare a puntare sull’uomo. Non tutto, infatti, può essere programmato. Vorrebbero che fosse così. Ma non lo è. Ci sono individui e forze che si stanno schierando, dopo svariati decenni di accecamento, su trincee nuove.

A chi pensa al riguardo?

Alla Chiesa di Papa Francesco, ad esempio. Ma non solo. Ci sono fenomeni che stanno girando in positivo quello che il digitale comporta. Le logiche del web 2.0, ad esempio, sono logiche che poggiano su alcuni assi storici della cultura della sinistra: condivisione, cooperazione, consapevolezza, creatività, collaborazione, autogestione sono a fondamento del digitale 2.0, ma sono parole e pratiche antiche della cultura della sinistra e germoglieranno presto in forme nuove della politica e delle nuove forme di rivendicazione. 

La sinistra deve cambiare le forme della propria lotta? 

Andremo al di là della semplice “rivendicazione” di spazi e diritti ad un potere che rimane inamovibile e centrale. Stiamo andando verso forme nuove di appropriazione di spazi di vita che possono uscire dallo schema classico del capitalismo, quello della produzione di valore di scambio, cioè di merci. Stiamo entrando in un’era della vita in cui le tecnologie e le pratiche sociali che si stanno diffondendo, aprono alla possibilità di produzione diretta di valore d’uso. Una vera e propria realizzazione diretta di nuove forme di produzione, di scambio, di dono, di consumo, di relazione. E così via. Questa è la forma della Rivoluzione del XXI secolo. 

La socialdemocrazia non ce la fa a tener fede ai suoi principi di eguaglianza nel capitalismo. Secondo Lei i partiti della sinistra europea hanno trovato un nuovo pensiero politico adeguato a fare fronte alle  necessità impellenti dovute agli inasprimenti sociali causati dalla rivoluzione tecnologica e quindi a riempire i vuoti lasciati da una politica socialdemocratica considerata da molti oramai obsoleta?

La socialdemocrazia nasce con la consapevolezza che all’interno dello schema capitalistico non possa prodursi il processo di liberazione e di consapevolezza dell’uomo. Per questo è nata e questa esigenza non è stata cancellata dal periodo d’oro del Welfare State. Certo, per quel periodo transitorio della storia del ‘900 è sembrato che fosse possibile una “sintonia di intenti” tra capitale e movimenti socialisti, almeno nel ristretto novero dei paesi europei. Al di fuori di tale perimetro mi sembra che il successo del modello sia stato scarso o addirittura nullo. Ora anche all’interno dei confini europei quel compromesso mostra la corda, non riesce né a distribuire ricchezza attraverso il lavoro e il welfare, né a garantire la percezione di un senso di marcia sociale della storia umana. Sembra aver smarrito, nella semplice opera di gestione amministrativa, il senso della propria funzione. Quindi ha perso l’anima, la forza derivante dall’interpretazione di bisogno di trasformazione radicale del mondo. Ma intorno alle novità che si schiudono all’interno delle innovazioni prodotte dal capitale, riemergono nuove esigenze, nuovi bisogni, nuove pratiche. La politica rinasce sulle contraddizioni nuove, necessita delle analisi adeguate a comprendere le innovazioni economico-sociali e di un gruppo dirigente in grado di socializzare queste nuove acquisizioni. In Europa, alla sinistra, serve un processo di questo livello. E questa necessità può oggi prefigurare un superamento delle divisioni otto-novecentesche della sinistra. Serve un nuovo inizio, ma non partiamo da zero. Molte analisi, molta sperimentazione sociale, qualche tentativo di esperimento sul piano politico. Insomma qualcosa si muove, ma troppo lentamente. Occorre estrarre intelligenza organizzativa di nuova generazione dai processi in atto. Un po’ come fece il movimento operaio nell’ottocento fino alla nascita della nuova forma organizzativa che prese il nome di partito. A quel tempo impiegammo qualche decennio, ora speriamo di metterci meno tempo…

Secondo Lei dopo la caduta del socialismo reale di stampo sovietico si è voluto dare spazio ad una altra forma di comunismo, per esempio al famoso eurocomunismo creato da Enrico Berlinguer?

Una parte dei partiti comunisti europei negli anni ’70 del secolo scorso compresero che il modello sovietico non era in grado di rappresentare un modello politico, economico e sociale per l’Europa e forse per il mondo intero. Ricordiamoci, infatti, che la proposta arrivò a contagiare partiti comunisti fino al Giappone. Ma il modello dell’Eurocomunismo cadde prima del crollo del muro. La necessità era stata individuata ma la ricetta non riuscì a mettere le radici per molte ragioni. Alcune erano legate alle novità del mercato capitalistico che stavano arrivando; penso, ad esempio, all’arrivo in Europa dell’industria di senso a partire dal 1980 con l’arrivo della televisione commerciale prima in Italia, poi in Francia e poi nel resto dell’Europa. Altre, alle sconfitte del movimento operaio di quella fase, penso alla marcia dei 40.000 della Fiat in Italia e alla lotta dei minatori in Gran Bretagna. Il resto lo stava facendo lo scontro politico nei vari paesi ove le forze conservatrici stavano poggiando sulla rinnovata funzione della finanza che le tecnologie digitali stavano facendo diventare non solo globali, ma automatiche e in tempo reale. In altre parole, l’esigenza di coniugare democrazia politica e democrazia economica, di costruire una società politica, fondata sui partiti ma permeabile dalle istanze della società, una società ove i diritti sociali e civili avrebbero potuto poggiare uno sull’altro per aumentare il grado di libertà dell’individuo ma non a scapito della collettività, una proposta, per dirla con uno schema tutto politico, ove democrazia e socialismo potessero incontrarsi nella possibilità di forgiare un uomo consapevole e sociale, questa essenza dell’eurocomunismo si andò ad infrangere sulle nuove dinamiche del capitalismo che stava mutando e sulla cecità dei vecchi regimi sovietici. Gorbaciov arrivò troppo tardi e troppo debole per poter giocare di sponda con questa proposta innovativa. Enrico Berlinguer era già morto e l’Eurocomunismo era stato archiviato, di fatto, dal Partito Comunista Francese. 

Ci può spiegare che cosa significava allora l’ Eurocomunismo? Tale forma di comunismo potrebbe essere attuabile ora in Europa e se sì con quali conseguenze a livello della politica mondiale?

L’Eurocomunismo era il tentativo di rileggere il conflitto tra movimento operaio e capitale alla luce delle acquisizioni che si stavano conquistando nei modelli sociali ove esisteva il welfare state. Fu importantissimo perché apriva alla consapevolezza che non si inseguiva un modello precostituito, schematicamente assunto. Oggi quella fase è superata e non è riproponibile. Le nostre società sono diverse da quelle degli anni ’70 del secolo scorso. La composizione delle classi è diversa, le forme della politica sono mutate. Il capitalismo finanziario ha imposte forme produttive e luoghi decisionali che prima non esistevano. Le forme del potere sovranazionale e, spesso, totalmente a-democratiche, hanno un ruolo preponderante rispetto ai parlamenti e alle istituzioni del secolo scorso. Ma le motivazioni della proposta, l’idea di una società a dimensione più umana, rimangono inalterate. E la proposta di costruire una politica capace di trasformare il mondo e portarlo al di là dei limiti del capitalismo e di farlo con un processo democratico, con la costruzione del consenso, sono ancora tutte valide. Io chiamo questa necessità la “transizione possibile”.

 Ecco, andare oltre i limiti del capitalismo, oltre la sua inefficienza, oltre le sue diseguaglianze, oltre la rapina delle risorse che stanno mettendo in ginocchio i cicli di riproduzione naturale, oltre l’idea che il mondo sia pensabile e gestibile come una fabbrica, con le sue logiche produttive, oltre l’idea che il regno animale e vegetale siano due comparti di quell’unica grande corporation in mano all’umano capitalista. Un’esigenza ancora oggi presente, anzi ancora più incessante di trent’anni or sono. 

Quali cambiamenti nella politica interna ed economica, quindi, apporterebbe oggi? Cosa significa la transizione possibile? 

Credo che il primo passo sia quello di superare le etichette che hanno diviso le forze del mondo del lavoro nel ‘900. Socialiste, comuniste, socialdemocratiche, sono etichette che non dicono più molto agli individui di oggi e, spesso, quello che dicono sono cose che non aiutano chi vuole continuare la lotta per la liberazione e la consapevolezza umana. Abbiamo bisogno di organizzare la politica che serve al mondo del lavoro di domani, quello che dovrà affrontare la battaglia dei processi di robotizzazione generalizzata, di cancellazione di una miriade di lavori classici. Dobbiamo sapere che il tema di oggi è sapere se la ricchezza prodotta dall’intero apparato produttivo mondiale dovrà essere redistribuito attraverso il lavoro oppure no. Nel primo caso ci apriremo ad una nuova fase interessantissima di liberazione, anche per le nuove forme di lavoro e di produzione possibili, nel secondo caso avremo una società suddivisa tra un numero ristretto di lavoratori con scarse tutele e bassi salari, una fetta altrettanto grande di lavoratori precari senza tutele e una fetta estesa di persone che saranno stabilmente fuori dal ciclo produttivo a cui spetterà un salario di sopravvivenza. È questa la strada che l’Europa ha intrapreso. E poi ci si lamenta che le persone sono relegate ai margini, hanno riflussi di destra, si allontanano dalle lotte per i diritti e si scagliano contro i migranti. È il modello introdotto dalla normativa Bolkestein.

Noi abbiamo bisogno di una politica che sappia guardare al domani con una proposta radicalmente nuova. In primo luogo la sinistra di questo secolo non può essere semplicemente “rivendicativa”. Lasciare, cioè, il compito di guidare i processi di innovazione al capitale – sempre più, tra l’altro, basandosi sulla economia condivisione, cioè sull’apporto diffuso della socialità – e limitarsi a rivendicare diritti e redistribuzione della ricchezza mettendoci ai margini del processo. La sinistra di questo secolo sarà una sinistra capace di costruire proprie forme di produzione, di decisione, di socializzazione da contrapporre alla produzione di merci. Produzione di valore d’uso contro la produzione di valore di scambio. Nel fare questo sarà possibile e necessario demercificare la forma della vita umana. Non misureremo le nostre società su parametri come il PIL. Attività come il riuso, il risparmio, la rigenerazione, la riduzione delle merci saranno attività sociali che saranno retribuibili con monete sociali di diversa circolazione, sul modello delle blockchain su cui ci si è basati per le monete come i bitcoin.

Potremmo reingegnerizzare le forme sociali basandoci sulle potenzialità della rete, soddisfacendo bisogni sempre più immateriali, riducendo l’impronta umana sul pianeta e riducendo lo spazio della vecchia forma della produzione dell’era capitalistica. Consumeremo il possibile a Km0, produrremo molte delle merci necessarie in spazi sociali che abbiano strumentazioni 3D e quelle che non potremmo produrre saranno scambiate attraverso le forme della condivisione con altri luoghi che baseranno lo scambio sempre più senza le transizioni classiche. Siamo noi che non avremo più bisogno del capitale, non lui delle persone.  Questa è la transizione possibile. Il ripensare le nostre società dalle fondamenta. Oggi è possibile e realizzabile perché c’è una nuova generazione in campo che è veloce, digitale e pronta ad un cambiamento di paradigma che la vecchia politica stenta a comprendere. Marx pensava ad un futuro poggiato sui liberi produttori associati. Beh anch’io penso che questo sia il destino che abbiamo davanti. Le innovazioni che necessitano per arrivare a quel livello di libertà ora possiamo intravvederle. 30 anni fa era impossibile. In quel tipo di società posso calare la più bella visione del comunismo di Marx quando, nei manoscritti economico-filosofici del ’44, ci fa comprendere come il comunismo sia per lui l’educazione dei 5 sensi. Cioè una società in cui la consapevolezza del singolo sia integrale.

Come cambierebbe la politica economica europea se noi guardiamo alle  crisi dei paesi del sud dell’ Europa e ai tentativi della  banca centrale europea di far uscire l’Europa dalla deflazione e reintrodurre di nuovo l’ inflazione?

L’illusione della politica è che questa crisi possa essere superata attraverso il governo della moneta. Anni di ricette liberiste hanno prima creato le premesse della grande crisi del 2008 e poi ridotto i livelli di welfare in Europa senza significative redistribuzioni di ricchezza nei vari Sud del mondo. Anzi, la disperazione sembra essere aumentata. Alla crisi strutturale, l’incapacità di tornare a produrre ricchezza da redistribuire in maniera sistemica, si è risposto con l’illusione che ci si possa salvare da soli. In Europa le politiche della Germania hanno ipotizzato la possibilità di divenire l’unico vero paese industriale del continente, senza fare i conti che indebolendo le economie degli altri paesi europei la debolezza strutturale della domanda interna nazionale ed europea avrebbe garantito solo alcuni anni di benessere, ma a scapito di un peggioramento sociale e politico di tutta l’area Euro con le conseguenti ricadute politiche ed economiche nel medio periodo. Un quadro che si sta consolidando ad una velocità crescente. L’Inghilterra pensa ad uno sganciamento dal quadro europeo con la stessa miopia e le politiche monetarie della BCE non sono riuscite a invertire il quadro deflattivo e quello di crisi dei paesi dell’Europa mediterranea. Senza la ripresa di un po’ di inflazione arriveremo alla fine del mandato di Draghi con una nuova sterzata monetarista che aggraverà molto il quadro della situazione. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha anticipato, in un recente viaggio in Italia, la linea del dopo Draghi: fine del sostegno ai debiti pubblici da parte della Banca Centrale Europea e ripristino delle semplici regole liberiste della concorrenza. Una nuova illusione di garantire un periodo di ripresa all’economia tedesca sganciata dai destini degli altri paesi europei. Ma è lo stesso che l’Europa nel suo complesso sta facendo verso il Medio-Oriente e l’Africa. Non c’è salvezza se non attraverso la collaborazione e la pace. E non è possibile garantire un futuro solo al proprio paese. È una visione, oltre che sbagliata sul piano etico-morale, miope e inefficace dal punto di vista di garantire una vera fuoriuscita dalla malattia che sta corrodendo il tronco sul quale siamo tutti poggiati. Nell’isolamento nazionale e nella politica monetarista non è possibile invertire o uscire dall’ attuale crisi strutturale e sistemica. 

La sinistra, in primo luogo quella europea, deve sganciarsi da questa illusione. Servirebbe un grande incontro, una grande assise per rilanciare una prospettiva diversa e superare le fratture in avanti. La crisi sistemica  è un intreccio della crisi monetaria e finanziaria,  del grande cambiamento introdotto dalle trasformazioni che il digitale sta producendo e, per complicare ancor di più il quadro, tutto il fare umano deve fare i conti con le compatibilità che l’astronave Terra ci ha segnalato. L’accordo COP21 di Parigi ancora non si è integrato con le scelte di politica quotidiana. Esattamente come la trasformazione introdotta dal digitale. La politica continua a parlare solo di moneta e finanza e delle sue compatibilità. Una visione miope e incapace di indicare una via e scaldare i cuori. Per questo serve una “transizione”…  

L’esperienza politica in Italia che  cosa le ha insegnato tenendo conto che Lei ha una visione dal di dentro della sinistra italiana? Che cosa e’ necessario che cambi acche’ una politica di sinistra in Italia possa venire  attuata giacche’ il partito democratico non risponde alle esigenze di un partito vero di sinistra?

La crisi che investe la sinistra in Italia è una crisi profonda, una crisi che deriva, in qualche misura, proprio dalla forza che essa ha avuto nella storia dell’Italia repubblicana. Le strutture che ancora sono in piedi, e sono ancora molte e sufficientemente forti, tendono a comportamenti inerziali, a proseguire sulla stessa strada. Invece abbiamo bisogno di grandi novità, di nuove analisi, di nuove pratiche. Qualcosa si sta muovendo. Il processo che si è aperto per la costruzione di un nuovo partito, Sinistra Italiana, sta provando a raccogliere le forze disponibili ad una partenza di nuovo tipo. A Febbraio abbiamo tenuto una grande assemblea nazionale delle persone, delle associazioni, delle forze politiche che fanno riferimento alla sinistra. L’abbiamo chiamata Sinistra Italiana che ha un acronimo che in Italia suono bene SI. Abbiamo provato a innovare sia nelle forme della convocazione, sia in quelle della discussione, della individuazione di un punto di coordinamento e ha adottato una piattaforma digitale per la militanza. Certo c’è bisogno di un grande sforzo, ma qualche tassello si inizia a vedere. Come in altre parti d’Europa. Penso al dialogo tra Podemos e la sinistra tradizionale in Spagna, ad esempio. Penso alle novità del Labour inglese diretto da Jeremy Corbyn o del confronto nelle primarie USA tra la linea della Clinton e quella di Bernie Sanders. Penso al nostro tentativo di Sinistra Italiana, ma anche a quello di personaggi come Varoufakis. Insomma, qualcosa si muove, ma ancora troppo lentamente e soprattutto troppo spezzettato. Manca non tanto lo sforzo di una ricerca, ma una visione complessa e innovativa che sappia essere inclusiva delle diversità, ma salda nella radicalità della ricerca. 

Quali ripercussioni avrebbe una svolta a sinistra italiana anche per gli altri stati europei?

Credo che per la storia della sinistra italiana, per le radici sociali profonde che ancora esistono, per il ruolo che il nostro paese può tornare a svolgere, non solo sul piano della elaborazione ma anche su quello della proposta e delle alleanze, la costruzione di una Sinistra Italiana forte possa determinare anche un rilancio della stessa ipotesi europea. Negli anni ’70 dal PCI venne avanti la proposta dell’Eurocomunismo che cambiò la storia della sinistra in Europa. Chissà che non sia proprio dalla attuale crisi della sinistra italiana che emerga una proposta di una transizione per le società europee. La transizione possibile… 

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe