Ezio Pascutti, il Paradiso ritrovato

Ora che Ezio Pascutti è libero di volare lassù, lungo le praterie del cielo, e di regalare a nuove platee gli sprazzi della sua classe purissima, ora che può scendere nuovamente lungo la fascia, come faceva da ragazzo, quando Bologna la Dotta, prima con Dozza e poi con Fanti, ne ammirava la bravura e l’umanità, ora a noi che siamo rimasti qui resta solo il rimpianto.

Il rimpianto e la nostalgia per un tempo che non c’è più, per una stagione del mondo irripetibile e, non a caso, confinata ormai nella memoria e sui libri di storia, fra le pagine più belle che, di tanto in tanto, ciascuno di noi va a rileggere per assaporare nuovamente il profumo di un’epoca che sapeva di lasagne e tortellini, di limpidezza e di speranza; un’epoca nella quale Bologna era veramente Bologna ed essere bolognesi significava provare quell’orgoglio pasoliniano di trovarsi in un ambiente di persone perbene nel contesto di una Nazione in cui a farla da padrona era, già all’epoca, la corruzione. Meno di oggi, per carità, ma lasciamo perdere le favole e le narrazioni ideali che mitizzano un Bengodi che, in realtà, non c’è mai stato e concentriamoci, piuttosto, su quel crogiolo ardente di passioni e meraviglie nel quale Dozza e Dossetti, nel ’56, si erano sfidati alle elezioni prendendosi quasi per mano, nel quale il pragmatismo tipico degli emiliani aveva trasformato la città felsinea in un punto di riferimento internazionale per qualità della vita e livello del benessere, nel quale nei bar, la sera, il commendatore e l’operaio potevano incontrarsi e stringersi serenamente la mano, nel quale le cooperative funzionavano sul serio e costituivano un’eccellenza unica nel suo genere, nel quale si era tutti un po’ Biagi, un po’ Berselli, un po’ Guccini, un po’ Pasolini e, soprattutto, un po’ Guareschi: Don Camillo e Peppone, il diavolo e l’acqua santa, l’oratorio e la casa del popolo, il “Galvani” e l’università più antica del mondo; infine quegli undici diavoli, presieduti da un personaggio singolare e indimenticabile come Renato Dall’Ara, produttore di canottiere termiche nonché sognatore visionario che si era messo in testa di far rivivere “il Bologna che tremare il mondo fa” a trent’anni di distanza dai fasti ormai sbiaditi di Sansone e Biavati. Era il Bologna dei “Comizi d’amore”: una squadra dalla tempra carducciana, umile, operaia e, al tempo stesso, fastosa, condotta con rara maestria da un romano autentico che seppe coniugare al meglio il proprio linguaggio forbito con la semplicità richiesta da un contesto nel quale si era soliti dirimere anche le controversie più spigolose a suon di tagliolini al ragù.

Un personaggio verace, Fulvio Bernardini, proprio come il suo magnifico Bologna: prima squalificato per una brutta vicenda di doping e poi riammesso con il proprio punteggio, in quanto le accuse infamanti a carico della squadra erano state smantellate una dietro l’altra dall’emergere della verità. E Pascutti di quella meraviglia artigianale ne era l’incarnazione e l’anima, il senso e l’emblema, al pari di altri funamboli che rispondevano ai nomi di Haller, Nielsen, Bulgarelli e di discreti operai della pedata come capitan Pavinato, Tumburus, Janich e Fogli. 

Nacque così quel vittorioso spareggio del 7 giugno del ’64 contro un Inter carica di allori e ancora ebbra di felicità per il trionfo di dieci giorni prima contro il Real Madrid metafisico di Santiago Bernabéu e delle leggende Gento, Di Stefano e Puskás. 

Pascutti quel giorno non c’era a causa di un infortunio, come non c’era più il presidente Dall’Ara, ma nessuno più di loro fu protagonista di quella vittoria insperata: l’ultima di una squadra che da allora aspetta invano un alloro di eguale prestigio, l’ultima di una città che ha progressivamente smarrito la propria anima, la propria identità e i propri valori, travolta dalle iniquità della globalizzazione e dai dogmi squallidi di un calcio in cui né Pascutti né Dall’Ara né, meno che mai, il garibaldino Bernardini si sarebbero potuti riconoscere. 

Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Haller, Nielsen, Capra: questi gli undici artefici dell’impresa romana di quella lontana domenica di giugno, con Pascutti al colmo della gioia per l’affermazione della squadra e della città in cui la sua arte sublime aveva trovato l’occasione per esplodere in tutta la sua grazia.

“Così si gioca solo in Paradiso” aveva osato dire il condottiero Bernardini al termine di un 7 a 1 rifilato al Modena, con lo scudiero Pascutti autore di una tripletta e Haller, tripletta anche per lui, e Bulgarelli a completare il capolavoro. Era il 14 ottobre 1962, era l’Italia del boom, della spensieratezza e dello sguardo ottimistico verso il futuro. Un’Italia che non c’è più, al pari dei suoi alfieri scanzonati, giocosi e desiderosi di conquistare la nuova frontiera di un decennio considerato, a ragione, tra i più rivoluzionari di sempre. 

Ciao Ezio, ci mancherai.

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