Ferrara e Zambrotta: l’anima della Juve

Chi conosce un po’ la storia della Juventus sa che la sua forza non è mai stata solo la classe e il talento dei suoi campioni, da Sivori a Platini, da Del Piero a Dybala, ma anche lo spirito di sacrificio, la dedizione e il coraggio dei suoi splendidi gregari.

Considerata, a ragione, la più operaia fra le grandi del nostro calcio, la Juve ha sempre saputo coniugare l’anima borghese e risorgimentale di Torino con il suo spirito proletario, come se accanto alla famiglia Agnelli scendessero in campo anche le tute blu di Mirafiori; principi e pedatori, fuoriclasse e onesti mediani che, però, nell’economia del gioco bianconero, sono sempre stati ugualmente importanti, in base alla filosofia bonipertiana secondo cui “vincere non è importante: è l’unica cosa che conta”. E per vincere, per risultare spettacolari ma, al tempo stesso, solidi, concreti e affidabili, a Torino non si sono mai sognati di rinunciare a due ottimi giocatori come Ciro Ferrara e Gianluca Zambrotta, nati a otto giorni e dieci anni di distanza l’uno dall’altro, l’uno a Napoli, l’altro a Como, ma accomunati, oltre che dall’esperienza juventina, dal fatto di aver giocato al fianco di campioni straordinari, Maradona e Zidane su tutti. 

Il Napoli che incantò l’Italia e l’Europa a cavallo fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ad esempio, non avrebbe mai potuto fare a meno della classe e del carisma di un difensore come Ferrara: proletario del pallone ma, al contempo, capace di vivere da protagonista esperienze straordinarie, di non sfigurare al fianco di miti come Maradona, Giordano e Careca e di restare ai massimi livelli anche nella seconda metà della propria carriera, al cospetto di gente come Del Piero, Zizou, Nedved, Davids e Trezeguet. 

E il comasco Zambrotta, nato trequartista o, comunque, centrocampista offensivo e trasformato progressivamente da Lippi in uno dei migliori terzini sinistri del calcio mondiale, raggiunse l’apice del proprio splendore sportivo nei quarti di finale del vittorioso Mondiale tedesco, quando fu il protagonista assoluto della partita, fornendo una prestazione maiuscola. Discreto nel Como, bravo nel Bari, magistrale alla Juve, in declino nel Barcellona del primo Messi, crepuscolare ma comunque in gamba nell’ultimo Milan all’altezza della sua storia, infine l’avventura svizzera al Chiasso, prima di ritirarsi ed iniziare ad allenare, al termine di una carriera invidiabile ed esemplare per passione, determinazione e impegno. 

Volendo tracciare un bilancio della lunga epopea pallonara di entrambi, possiamo dire che, senza dubbio, gli anni in bianconero sono stati i più validi del loro percorso umano e professionale: gli anni della piena maturità, gli anni dei maggiori trionfi, gli anni dell’affermazione internazionale, gli anni felici in azzurro, gli anni in cui, sotto la sapiente guida di Lippi, Ancelotti e Capello, sia l’uno che l’altro si sono affermati, agli occhi di commentatori e tifosi, come due punti di riferimento di una corazzata in grado di egemonizzare l’intero decennio, prima della bufera di Calciopoli e delle sue tragiche conseguenze. 

Ciro, cinquant’anni lo scorso 11 febbraio, e Gianluca, quaranta il 19, sono oggi due uomini all’apice della vita, giustamente soddisfatti per ciò che hanno realizzato, per la solidità che hanno raggiunto e per il fatto di essere riusciti a costruirsi un avvenire felice anche quando le luci della ribalta si sono spente, lasciando in tutti noi un gradevole ricordo e in loro la certezza di essere stati l’anima e i simboli di una squadra indimenticabile, condottieri un po’ guasconi di un gruppo di uomini veri, prima ancora che di fuoriclasse.

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