Campo Progressista: una sinistra di popolo a metà fra Pasolini e Prodi

Un sabato romano con un venticello pungente ma, comunque, gradevole e assolato, un teatro, il Brancaccio, situato nella via del celebre romanzo di Carlo Emilio Gadda e un mondo, quello della sinistra ulivista, che si ritrova finalmente unito, grazie alle doti di federatore dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. 

Già, Pisapia: simbolo della primavera arancione del 2011, prima delle larghe intese, del montismo e della coabitazione forzata con la destra fino a trasformarsi essi stessi in destra, prima di perdere ogni identità, ogni principio e ogni valore per annegare gli ideali di gioventù nel governismo spinto e privo di prospettive. 

Un uomo, Pisapia, che negli ultimi anni ha commesso svariati errori, primo fra tutti quello di non capire per tempo chi fosse Renzi, tanto da fidarsene e arrivare addirittura a sostenere il referendum costituzionale: un’ombra sul profilo di una figura che, nonostante tutto, incarna al meglio i valori del civismo e della politica dal basso, fatta di volontari, giovani, mondo della cultura e dello spettacolo, partecipazione popolare, consenso effettivo, coinvolgimento della comunità nelle scelte da compiere e sguardo sempre rivolto al futuro.

Un Pisapia che nei mesi scorsi è stato spesso ambiguo, dando talvolta l’impressione di voler coprire Renzi a sinistra, ma che ora sembra aver capito, finalmente, che con quel tipo di progetto, con i toni, i modi e le scelte politiche del Lingotto, non può esserci alcuna collaborazione, checché ne pensino e ne scrivano alcuni illustri commentatori. 

E dunque è stato durissimo: un disconoscimento totale delle radici e delle caratteristiche tipiche del renzismo, un appello alla sinistra ad uscire da logiche emergenziali e ritrovare se stessa, un lento e faticoso lavoro di tessitura che sembra aver già trovato un approdo, considerando il fatto che in platea era riunita tanto la sinistra di Speranza quanto i sostenitori di Andrea Orlando al congresso del PD, i quali, parlo almeno dei militanti, i dirigenti vedremo, probabilmente alzeranno bandiera bianca in caso di una nuova affermazione di Renzi alle primarie del prossimo 30 aprile. C’era anche la presidente Boldrini, sia pur in disparte, come del resto tutta la classe dirigente presente in sala, in quanto è stata compiuta la saggia scelta di dare spazio alle storie della gente comune, di chi ha patito la crisi sulla propria pelle, di chi soffre nelle periferie del disagio e di chi avrebbe talento ma non ha alcuna possibilità di affermarlo, in un Paese chiuso ed incapace sia di mettere le ali a chi potrebbe volare sia, a maggior ragione, di venire incontro alle difficoltà di chi da solo non può farcela. Una sinistra di popolo, dunque, con tratti pasoliniani e la capacità, tipica del PCI che fu, di coniugare alla perfezione l’alto e il basso, apocalittici e integrati, chi rappresenta l’Italia ai massimi livelli e il mondo degli operai, dei braccianti, degli esclusi e di chi lavora nelle campagne pugliesi per pochi euro l’ora.

Una sfida che è sembrata andare oltre il referendum dello scorso 4 dicembre, come se Pisapia fosse riuscito nell’impresa di traghettarci fuori da quel fetido clima da guerra civile, di superare le antiche ruggini, di proiettarci al di là delle divisioni, dei rancori e delle terribili incomprensioni che hanno devastato il centrosinistra negli ultimi anni, fino ad annientarlo e a condurlo ad una serie di disperanti sconfitte. 

Una sfida che, a nostro giudizio, non sarebbe stata, tuttavia, possibile se non ci fosse stata la coraggiosa decisione di un gruppo di esponenti del Partito Democratico di opporsi alla deriva plebiscitaria teorizzata da Renzi e, di fatto, cardine del renzismo, dapprima con la scelta del NO al referendum e poi con una salutare, per quanto tardiva, scissione: guardiamo avanti, sì, ma senza mai dimenticare ciò che è stato. 

Una sfida, quella di Pisapia e del suo Campo Progressista, che potrebbe trovare un grosso avversario nel Meridione, in quanto la biografia del noto avvocato milanese è quella di un ricco borghese meneghino, senz’altro stimabile e che ha già ampiamente dimostrato le proprie capacità amministrative ma il cui profilo potrebbe non funzionare là dove il reddito medio è più vicino a quello della Grecia che a quello della Baviera, là dove la disoccupazione giovanile è alle stelle, là dove la disperazione sociale sociale è diffusa e la rabbia monta di giorno in giorno, senza alcuno spazio per la moderazione, per la pacatezza e per tante altre caratteristiche tipiche di un galantuomo che corre, purtroppo, il rischio di apparire agli occhi di molti troppo milanese e, a sua volta, poco in sintonia con la realtà dell’Italia che non ce la fa. 

Può sembrare un paradosso per un politico di valore, oltretutto proveniente dalle fila di Rifondazione Comunista e di SEL, ma non è così: in questa fase storica, contano molto anche l’autenticità e le sensazioni che si riescono a trasmettere e diciamo che l’ex sindaco di Milano non dà proprio l’impressione di essere il paladino degli ultimi, pur avendo fatto della difesa e del sostegno nei confronti dei più deboli una delle proprie ragioni di vita.

E poi c’è il quadro politico che va delineandosi e questo sì deve terrorizzarci, in quanto il PD ormai snaturato e macronnizzato di Renzi arriverà secondo o, forse, addirittura terzo, nel caso in cui Berlusconi dovesse riuscire a rimettere in piedi quel che resta del centrodestra, magari aggregandolo intorno ad una figura che difficilmente potrà essere ancora la sua ma che di sicuro non avrà il profilo estremista di Salvini. Se Berlusconi dovesse riuscirci, il centrodestra sarebbe primo; se non dovesse riuscirci, Forza Italia imploderebbe, con una parte dei suoi attuali esponenti (il cosiddetto “Partito del Nord” costituito dal trio Toti-Romani-Gelmini) che si dirigerebbe verso i lidi lepenisti del duo Salvini-Meloni e l’altra che andrebbe ad ingrossare le fila del polo moderato di Casini, Alfano, Tosi e via elencando, il quale punta a governare insieme alla versione italiana del soggetto politico indistinto che ha in mente Renzi (con Franceschini pronto a prenderne il posto nel caso in cui dovesse tramontare l’astro del Rottamatore fiorentino). 

Poi c’è il M5S, privo di un’adeguata cultura di governo, rabbioso e già cultore dell’arroganza del potere prima ancora di averlo assaggiato, il quale potrebbe tuttavia risultare primo e poi tentare o un accordo con la destra lepenista o, più probabilmente, di proporre al Parlamento una sfida inaccettabile, ossia dar vita ad una sorta di governo di minoranza che navighi al buio, procedendo provvedimento per provvedimento. Dubito che Mattarella potrebbe avallare una simile follia ma sarebbe anche l’unica condizione che consentirebbe loro di rimanere uniti. 

Infine torniamo al centrosinistra civile e riformista di Bersani e Pisapia, il quale sarà chiamato a muoversi fra tre populismi complementari, cosciente sin d’ora del fatto che verrà sistematicamente attaccato da tutti e tre e che i suoi toni costruttivi e il suo desiderio di buona politica impiegheranno un bel po’ di tempo prima di fare nuovamente breccia nel cuore di un Paese fragile e devastato da una crisi senza precedenti e, apparentemente, senza sbocco. 

Una missione ai limiti dell’impossibile, eppure bisogna provarci: questo ci siamo detti sabato al Brancaccio, mentre apprendevamo la notizia del clochard palermitano dato alle fiamme per gelosia da un personaggio miserabile in tutti i sensi e poco prima di assistere agli scontri che hanno messo a ferro e fuoco Napoli nel corso dell’evento-provocazione di Salvini, erroneamente osteggiato in maniera scomposta da De Magistris e colpevolmente avallato secondo quelle modalità dal ministro degli Interni. 

È in quest’Italia feroce e incattivita che dovrà muoversi la sinistra di popolo, a metà fra la passione civile di Pasolini e l’europeismo democratico di Prodi, che sabato ha provato a prendersi nuovamente per mano. Ci è riuscita e anche bene, ma la nostra missione avrà un domani solo se agiremo sempre tenendo presente che nulla è scontato, che ci attendono tempi barbari e che il nostro percorso è solo all’inizio e sarà irto di ostacoli.

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