Giacomo Mancini: il socialista controverso

Quanti errori, povero Mancini! Se ne è andato quindici anni fa e merita comunque di essere ricordato con stima e rispetto; fatto sta che Giacomo Mancini, socialista a ventiquattro carati, per due anni segretario nazionale del PSI e ministro in alcune delle migliori esperienze di governo del nostro Paese, visse ottantacinque anni, si batté fino all’ultimo per i suoi ideali e commise, come tutti, molti sbagli, nel suo caso resi più gravi dal fatto di essere stato per  parecchio tempo un protagonista della vita politica italiana. 

Al di là delle disavventure giudiziarie che caratterizzarono l’ultima fase della sua esistenza, dalle quali per fortuna è uscito pulito, liberandosi del fango e delle accuse infamanti di rapporti con la malavita che gli erano state gettate addosso, tra le colpe di Mancini c’è soprattutto quella di aver agevolato l’ascesa di Bettino Craxi, illudendosi di poterlo pilotare dall’esterno, grazie al proprio prestigio e alla propria esperienza politica, e venendo invece messo rapidamente ai margini del partito, in quell’orgia del potere che furono gli anni Ottanta del pentapartito e del debito pubblico portato alle stelle. 

Figlio di Pietro Mancini, antifascista ed esponente di spicco del socialismo calabrese, va riconosciuto a Mancini un amore per la politica che lo portò, a quasi ottant’anni, ad immergersi ancora nella battaglia più aspra, ricoprendo con dignità e competenza l’incarico di sindaco di Cosenza, dopo una vita trascorsa nelle istituzioni e decenni dedicati ai propri ideali. 

Perché Mancini, come gran parte della classe dirigente dell’epoca, al netto dei propri limiti, aveva quanto meno il pregio di credere in qualcosa, di avere una fede politica e di essere disposto a correre rischi oggi impensabili pur di difendere le proprie idee e i propri valori. 

Fu tra i sostenitori di Craxi, certo, sperando così di poter archiviare la scialba stagione del professor De Martino, culminata con il non certo esaltante risultato delle Politiche del ’76, ma gli va anche dato atto di aver attribuito al leader socialista tutte le responsabilità di ciò che emerse in seguito allo scandalo di Tangentopoli, senza trincerarsi, come fecero altri, dietro al tesoriere o ad altre figure minori del partito che, sostanzialmente, avevano soltanto eseguito ordini superiori. 

Quindici anni, un pensiero colmo di gratitudine e giù il cappello al cospetto di un uomo che non tradì mai gli ideali della gioventù, anche quando venne lasciato solo, anche quando per essi dovette scontare sofferenze e amarezze, più che mai di fronte ad una politica degradata e ad una società spaventosamente individualista, nella quale si avverte la mancanza di qualcuno che abbia almeno un’identità precisa e il coraggio di rivendicarla.

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