Libia. Diplomazia e corridoi umanitari. Analisi e proposte di Sel

ROMA – Il continuo flusso di notizie che si accavallano ormai da mesi riguardo la grande tragedia delle migliaia di morti nel Mediterraneo, e l’acuirsi dei conflitti che dal Maghreb al Medio Oriente , dalla Libia, alla Siria, all’Irak, fino all’Afghanistan e Yemen, e più a sud nell’Africa Subsahariana  chiamano Sinistra Ecologia e Libertà ad un’assunzione di responsabilità ed allo stesso tempo ad uno sforzo di elaborazione e proposta che siano ispirati a criteri fondati sul diritto internazionale e sui diritti umani.

Cosa non facile se si considera che in questo come in altri casi di crisi collegate alla sicurezza umana ciò che viene messo in discussione sono sia gli assetti politici e geopolitici precedenti che categorie di lettura ed interpretative – ormai superate – di fenomeni globali oggi ingovernabili con gli strumenti tradizionali della politica internazionale.

Per questa ragione ogni proposta “politica” sul tema della Libia e dei migranti dovrà anzitutto tentare di fare un salto in avanti rispetto ad una prassi ormai consolidata che vede la sinistra progressivamente subordinata a visioni del mondo fondate da una parte sull’interesse nazionale, l’accettazione del principio dell’ingerenza umanitaria, del securitarismo, e dell’autonomia dello strumento militare rispetto al ruolo della politica e della diplomazia. E dall’altra appiattita sulla critica “sic et simpliciter” ispirata a vecchi paradigmi anti-imperialisti. 

Nel frattempo aumentano, ed aumenteranno ancora, i numeri di coloro che si avviano in un percorso migratorio, e delle possibili morti in mare, o lungo gli itinerari via terra, meno noti ma non meno letali, in seguito all’acuirsi di crisi politiche e delle guerre civili in atto (si vedano ad esempio i casi di Eritrea, Siria, Irak e non solo, vista l’instabilità crescente che caratterizza anche l’Africa Subsahariana, dal Mali, al Niger, alla Nigeria). 

Nel caso della Libia, le conseguenze – “politiche” e non – dell’intervento internazionale che portò a suo tempo alla destituzione di Gheddafi ed alla dissoluzione del suo regime rendono oggi il “governo” e la gestione dei flussi migratori intimamente connessi alla ricostruzione di una cornice di “governo” e di pacificazione nel paese, e con soluzioni non imposte dall’alto, ma elaborate e praticate attraverso la partecipazione diretta delle comunità locali libiche. 

E’ dal basso, e con il necessario sostegno della diplomazia delle Nazioni Unite e dell’Europa , che può ripartire un progetto di ricostruzione della Libia oggi smembrata in varie aree di potere ed influenza, da quelle che si riconoscono nel governo di Tobruk e quello di Tripoli, chi alleato dell’occidente, chi più prossimo ai Fratelli Musulmani – che in occidente perdono progressivamente appoggi – , a quelle in mano a milizie paramilitari, o al controllo delle tribù che da sempre hanno svolto un ruolo di primo piano nella gestione e ripartizione del potere nel paese. L’ISIS (Daesh è l’acronimo in arabo) si è insinuata nelle maglie di questo Stato fallito, nonostante conti su forze relativamente esigue rispetto a quel che è il Daesh in Iraq e Siria: la Brigata Al Battar, composta da ex-foreign fighters libici e giovani jihadisti (Islamic Youth Shura Council) che controllano in parte Sirte. Ansar Al Sharia, più vicina ad Al Qaeda ma non ad essa alleata, combatte contro le milizie “lealiste” del generale Haftar a Bengasi e di recente si sarebbe coalizzata con le forze che si riconoscono nell’ISIS. La Cirenaica è la regione dove il jihadismo ha maggior presa ma è per lo più  un jihadismo non “dottrinale” più “identitario” alimentato da ostilità verso il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di ‘Abdullah al-Thinni, a Tobruk. 

Un conflitto puramente politico, quindi, non “religioso”, tra due governi con rispettivi parlamenti. Va poi aggiunto che molte milizie islamiche locali si sono coalizzate contro l’ISIS, nel Consiglio dei  Mujahidin. Insomma, un quadro complesso di un Paese in mano a bande armate, spinte secessionistiche, controllo di risorse petrolifere, golpe e controgolpe, tra Qatar che foraggia le milizie islamiche e Arabia Saudita. Egitto ed Emirati che sostengono il generale Haftar, alleato di Al Thinni che con la sua “Operazione Dignità” si è autonominato difensore della laicità e dello Stato. E’ questo il contesto nel quale proliferano reti criminali ,dedite allo sfruttamento dei migranti e di chi fugge dal proprio paese. 

Per l’Italia e la frontiera sud dell’Europa, passare dalla repressione dei flussi migratori al suo governo, significa come prima cosa abbandonare subito l’approccio attualmente seguito e messo al centro dell’attenzione mediatica, oltre che delle cancellerie europee, in base al quale si intende affrontare l’emergenza dei “barconi” e le sue ripercussioni sullo scenario mediterraneo e regionale. 

I dettagli trapelati circa le varie opzioni previste nel Crisis Management Concept (o CMC, il documento di strategia messo a punto dall’Unione Europea come cornice di riferimento per le iniziative prossime) e la conformazione della squadra navale EUNAVFOR Med rivelano ipotesi di intervento assai allarmanti. Il punto centrale non sarebbe solo più quello di distruggere i “barconi”, ma anche le “strutture” utilizzate per il traffico di esseri umani, dai depositi di carburante al resto. Ricorda nei fatti il dibattito sviluppatosi a suo tempo sulla no-fly zone, che precedette l’operazione internazionale che portò alla rimozione di Gheddafi ed il suo regime. Allora si diceva interdizione al volo di aerei militari di regime per proteggere i civili, e nei fatti si sarebbero bombardate anche le strutture utilizzate, dalle strade, agli aeroporti, alle centrali elettriche e depositi di carburante. La no-fly zone era il cavallo di Troia per un intervento militare vero e proprio. Oggi non ci saranno aerei, ma navi, non missili di precisione, ma incursori, ma il senso resta. Giova a tal senso ricordare come già nei mesi scorsi, prima ancora dell’ennesima tragedia in mare, i ministri o autorevoli esponenti parlamentari della maggioranza di governo avevano più volte prospettato – per essere poi di volta in volta smentiti – l’ipotesi di invio di una forza armata di terra o di “peacekeeping” o “peace-enforcing” in Libia, ma le condizioni politiche locali ed internazionali non sembravano propizie al riguardo. Oggi non si parla più – o per lo meno non allo stato attuale – di “peacekeepers” ma del dispiegamento di una forza armata europea sotto comando italiano, e possibilmente sotto copertura ONU. Non una “no-fly zone”, ma una “no-sail zone”, che rischia di aprire la strada ad un’ inedita modalità di intervento militare , non con “scarponi sul terreno” , ma con la presenza permanente di un apparato “dual use” di “soccorso” ed anche di “combattimento” pronto ad essere adattato ed attivato a seconda del bisogno. Un apparato che si affida ad alleati scomodi, giacché il traffico di esseri umani ha radici più profonde, commistione di interessi criminali e di elite militari e politiche non solo in Libia. 

In Egitto ad esempio, che secondo indiscrezioni starebbe già pianificando la costruzione di una coalizione pan-araba con il sostegno dell’Italia e della Francia per attaccare e chiudere la partita con i Fratelli Musulmani. Resta il fatto che il governo di Tobruk, quello che viene visto come legittimo interlocutore dall’occidente non accetterà mai interventi militari dell’Unione Europea, seguito in questo anche dal governo di Tripoli, mentre il generale Haftar è pronto alla rottura definitiva, avendo già annunciato il ritiro dal negoziato ONU. In questo ginepraio, geopolitico e non, si rischia di fare ancor di più dei migranti merce di scambio, presi come sono tra più fuochi. Le recenti indiscrezioni sulla strategia europea messa a punto per l’operazione in corso di definizione, e che sarà a comando italiano, confermano che esiste la possibilità concreta di azioni di terra, con possibili vittime civili, in aree oggi controllate da milizie appartenenti alla fazione del governo di Tripoli, ed in parte da gruppi vicini al Daesh. Non a caso si tratta  della stessa area sotto controllo di un governo e di un’organizzazione, quella dei Fratelli Musulmani, invisi in primis al nuovo rais del Cairo, Fattah Al-Sissi, grande alleato di Roma e dell’Europa nella lotta contro il Califfato. 

L’alleanza di Roma con il Cairo va oltre gli interessi economici dell’Italia, prefigurando una strategia politica del governo di tipo avventuristico che pregiudica il possibile ruolo di interlocutore politico super partes del nostro Paese nonché di attore responsabile (il cui dovere di responsabilità è ancora maggiore visto il nostro passato coloniale in Libia) in uno scacchiere fatto di conflitti e violazioni continue dei diritti umani. La recente condanna a morte dell’ex-presidente Morsi lo sta a dimostrare. In nome di un principio “umanitario” si fanno così alleanze con chi i diritti umani li calpesta, dal Cairo fino all’Eritrea, compresi  quei signori della guerra quali il generale Haftar che da paladino autonominato della lotta all’integralismo islamico è uno degli elementi d maggiore destabilizzazione della già disastrata Libia. O Isaias Afeworki in Eritrea dal cui regime donne ed uomini eritrei fuggono a decine di migliaia e che oggi viene riabilitato dall’Italia e dall’Unione Europea come attore chiave per la gestione dei flussi migratori, nel cosiddetto processo di Khartoum. 

Alla base di iniziative dalle conseguenze imprevedibili, come quella di cui l’Italia si è resa protagonista in Europa, c’è l’intreccio costruito ad arte in questi mesi, e mai o mal contrastato,  tra retorica dell’emergenza umanitaria e dichiarata volontà di voler prevenire nuove morti in mare, tutela dell’interesse nazionali (in primis delle imprese italiane e degli approvvigionamenti energetici)  e l’allarme  di trovarsi uno stato definitivamente fallito alle porte – la Libia appunto –  come possibile retrovia per le milizie del Califfato. L’ossessione securitaria ad arte utilizzata secondo modalità e semantiche diverse, ma alla fine convergenti, che oggi guida le scelte, che potrebbero aumentare piuttosto che diminuire l’instabilità, mette ovviamente a maggior repentaglio l’incolumità di coloro, i migranti vittime dei trafficanti, in nome dei quali si pretende di intervenire. 

In questa geografia del caos, alcune linee di condotta devono essere per noi imprescindibili. Anzitutto la dignità della persona e la centralità dei suoi diritti insieme al rispetto delle convenzioni e strumenti di diritto internazionale. E con ciò riconoscendo che i migranti sono innanzitutto donne e uomini che rivendicano la più antica e originaria libertà, quella – appunto – di sottrarsi a stili e condizioni di vita, in una parola di muoversi liberamente. La motivazione soggettiva, cioè, lungi dall’essere un particolare secondario, viene valorizzata come uno degli elementi principali della scelta di migrare. L’esperienza insegna che interrompendo un itinerario se ne produce un altro, spesso più rischioso per i migranti di quello precedente. In altre parole non si riduce il flusso bensì lo si rende più “invisibile” e, spesso, più letale. Affondare i barconi, dunque, avrebbe l’effetto “apparente” di interrompere per qualche tempo una rotta dei migranti, niente di più 

Il riconoscimento del diritto alla mobilità come diritto umano fondamentale va poi accompagnato dall’irriducibile logica della mediazione politica dei conflitti e la loro prevenzione diplomatica; e dal rifiuto netto di soluzioni militari. 

Questi tre principi si traducono per quanto riguarda le proposte adottate dall’Unione Europea,  anzitutto nella netta opposizione ad ogni ipotesi di uso della forza, attraverso il dispiegamento di una flotta europea con dotazione di incursori che potrebbero colpire a terra barche ed infrastrutture di ancoraggio e altri “asset” non meglio identificati usati dai trafficanti. 

Il documento approvato dal Consiglio Europeo dei Ministri degli Esteri e della Difesa il 18 maggio scorso, “smussa” le proposte avanzate dall’Italia, che avrebbe voluto la mano dura contro gli scafisti a terra, non solo per venire a capo delle divergenze tra paesi membri, che si sono esplicitate in particolare nel rifiuto di aumentare la quota di ‘accoglienza di richiedenti asilo’. Con tutta probabilità si tratta di una mossa per evitare di scalzare le competenze del Consiglio di Sicurezza, che sta negoziando una risoluzione che prevede l’uso della forza e che andrebbe al voto a fine giugno. Meglio allora aspettare che da lì arrivi la direttiva, piuttosto che irritare con una mossa “unilaterale” gli altri membri del Consiglio mentre si lavora per ottenere il loro sostegno. Vale la pena di ricordare che lo stesso Presidente del Consiglio di Sicurezza a suo tempo assieme a Ban Ki Mun si dichiararono assai critici circa una gestione “militare” della questione. 

A questo punto la domanda che è urgente mettere al centro del dibattito pubblico è se esista ancora il diritto internazionale oppure se lo stato di eccezione ripetutamente invocato autorizzi a farne carta straccia. Ed è questa tendenza all’emergenzialismo – che è un potente elemento di performance culturale prima ancora che politica – che dobbiamo contrastare. Nello specifico, invocare ad esempio, come fa l’Unione Europea, il precedente della missione antipirateria al largo della Somalia, Atalanta, è inopportuno giacché le basi giuridiche di tale missione risiedono in accordi e convenzioni internazionali contro la pirateria, mentre per le migrazioni di massa tali strumenti non esistono. La Missione Atalanta poi venne richiesta esplicitamente dalla Somalia. 

Non è possibile per queste ragioni isolare il tema dell’intervento militare quale soluzione alla tragedia delle morti in mare dal contesto geopolitico nel quale si intende intervenire, e dalle concause che ne sono alla radice. Senza trascurare il fatto che l’eventuale ricorso all’uso della forza rischia da una parte di chiudere decine di migliaia di migranti in una morsa micidiale, dall’altra di aggravare oltre ogni misura l’instabilità in Libia, pregiudicando gli sforzi delle Nazioni Unite e dell’inviato speciale Bernardino Leon per la costituzione di un governo di unità nazionale. Un intervento internazionale a comando italiano, sul terreno di un paese, nostra ex-colonia, le cui due fazioni contrapposte, il governo di Tobruk e quello di Tripoli, hanno chiaramente espresso la loro opposizione, ci trasformerebbe poi in bersaglio ideale per gi adepti del Califfato, aumentando così i rischi per la sicurezza nel nostro paese. 

Per queste ragioni Sinistra Ecologia Libertà esprime la sua  netta contrarietà alla proposta europea di distruggere i barconi a terra viste le possibili conseguenze. La distruzione in mare, una volta intercettati, i migranti messi in salvo, è già prassi consolidata e prevista dalle norme internazionali. Si dovrà invece fare ‘uso intelligente dell’intelligence, dello scambio di informazioni tra polizie per identificare le catene di comando dei trafficanti, e reprimere questo crimine. 

Egualmente Sinistra Ecologia Libertà si oppone  alla blindatura delle frontiere a mare, conseguenza di un aumento a dismisura della presenza di flotte armate al largo della Libia, dalle missioni europee fino a quella NATO Active Enedavour che si prevede possa essere impegnata, con un mandato nuovo, in questa nuova avventura. Sì, invece, al rafforzamento della capacità di salvataggio di persone in mare, sulla scorta di quanto fatto a suo tempo con l’operazione Mare Nostrum. Le proposte contenute nel piano europeo di rafforzare la missione Frontex chiamata Triton non sono adeguate all’urgenza di prevenire nuove morti, a maggior ragione considerando le previsioni fatte dall’ACNUR rispetto all’aumento esponenziale di persone che cercheranno di lasciare la Libia per arrivare nel nostro paese. Persone alla quali andrà assicurata l’incolumità ed il rispetto dei diritti umani nonché di un canale umanitario protetto e preferenziale che permetta loro di fare richiesta di asilo politico o richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato già prima di arrivare in Libia. A tal riguardo interessante appare la proposta del Commissario UE per i migranti Avramopoulos che prevede l’utilizzo delle delegazoni della UE nei paesi di origine, o nel caso di coloro che sfuggono alla guerra o alle persecuzioni politiche, in paesi diversi da quello di origine, per permettere a questi di presentare richiesta di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato nell’Unione Europea. 

Sinistra Ecologia Libertà è contraria a soluzioni all’instabilità libica che prevedano di schierarsi con una delle due parti in conflitto, come l’Italia oggi sta facendo assai inopportunamente appoggiando il governo di Tobruk. L’Italia dovrebbe fornire sostegno e risorse in sostegno allo sforzo negoziale delle Nazioni Unite affinché faccia perno su un accordo tra governatori locali, tribù, ed organizzazioni cittadine e della società civile, e sulla messa in sicurezza di quelle strutture che saranno necessarie per sostenere una nuova stagione di convivenza pacifica e di ricerca di regole democratiche da parte del complesso del paese, prime fra tutti la banca centrale e l’ente nazionale petrolifero che dovranno essere sottratti al controllo di qualsiasi fazione in conflitto. Si dovrà poi lavorare ad una “de-escalation” del conflitto all’interno della Libia respingendo ogni richiesta di rimozione dell’embargo di armi come fatto ripetutamente dai rappresentanti del governo di Tobruk, e costruendo un percorso diplomatico e negoziale macroregionale, ossia un negoziato che metta alle strette Qatar, Arabia Saudita e altre potenze o aspiranti tali che soffiano sul fuoco libico. 


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