Ermanno Rea e la Napoli dell’abbandono

Ermanno Rea: scrittore ma prim’ancora giornalista e, prima di tutto, profondamente napoletano. Ermanno Rea ci ha lasciato ieri all’età di ottantanove anni, spegnendosi nella sua casa romana al termine di un’esistenza limpida, intensa e invidiabile, alla vigilia dell’uscita del suo ultimo libro che avverrà il prossimo 13 ottobre.

Ermanno Rea: un riflettore sui drammi della sua città, un faro costantemente puntato sul Rione Sanità e i suoi protagonisti, su quella Napoli tragica, desolata, abbandonata dalle istituzioni e lasciata sola ad affrontare i suoi innumerevoli problemi; un grido di dolore e, al tempo stesso, un seme di speranza, affinché le cose cambino, affinché la cultura, la letteratura, l’impegno e la passione civile riescano nell’impresa di riscattare un quartiere disperato e una città difficile dai suoi mali atavici.

Ermanno Rea che amava la sinistra e per essa decise di impegnarsi, a quasi novant’anni, quando due anni fa accettò la candidatura alle Europee, circoscrizione Sud, nelle liste dell’Altra Europa con Tsipras, per testimoniare la propria vicinanza a un progetto e a una concezione del Vecchio Continente radicalmente alternativa allo sfacelo cui stiamo assistendo.

Ermanno Rea: ironico e amaro al tempo stesso, capace di scandagliare le molteplici sfaccettature dell’animo umano e di penetrare nel profondo delle singole questioni, affidandosi sempre a quella napoletanità verace che lo caratterizzava e gli scorreva nelle vene, fino a dare un senso a ogni sua parola, potremmo dire quasi a ogni suo respiro, ad una prosa asciutta e, al tempo stesso, ricca, capace di entrarti dentro e di trasmetterti una sensazione di incompiuto, di gelo e, al contempo, di fuoco, di rabbia, mista a una sconfinata voglia di reagire.

Ermanno Rea e quel desiderio costante, presente in ogni sua azione, di lasciare il mondo un po’ migliore di come l’aveva trovato, con una testimonianza vivida di cittadinanza attiva che si rispecchiava nelle sue mature convinzioni politiche e nella sua capacità di rimettersi sempre in gioco, anche a un’età alla quale molti suoi coetanei hanno ormai tirato da tempo i remi in barca.

Perché Rea, prima che un grande giornalista, un grande scrittore, un grande narratore del nostro tempo, delle sue miserie e dei suoi lampi di grandezza, prima di tutto questo, è stato un uomo. Un uomo vero, un meridionale a tutto tondo, con il pregio, tipico di quella zona, di una cordialità straordinaria mista a punte d’asprezza, nei momenti in cui l’indignazione saliva e infine riaffiorava in superficie come un fiume carsico impossibile da prosciugare, specie in questa stagione nella quale, talvolta, prendere posizione è l’unico modo per sentirsi vivi, oltre che per conservare il minimo sindacale di dignità.

Ermanno Rea: un gentiluomo d’altri tempi ma perfettamente calato nella modernità, protagonista fino alla fine, acuto osservatore e sognatore in sofferenza, in anni nei quali soprattutto le giovani generazioni fanno sempre più fatica anche solo a immaginarsi un domani.

E così, tra i vicoli, i profumi, le angosce e gli slarghi del suo palcoscenico preferito, nel delicato e poetico intreccio di viuzze che si attorcigliano su se stesse, in quel dedalo di emozioni, sentimenti e riflessioni che ti scavano dentro, si annega, rileggendolo, il dolore per una perdita che si farà sentire ogni volta che avvertiremo il bisogno di una sferzata e non la troveremo, alla ricerca di una delicatezza, di una dolcezza e di quella squisita umanità che, quando è necessario, sa trasformarsi nella più nobile e costruttiva delle critiche. 

E noi resteremo qui ad aspettare, invano, avvolti da una sensazione di straniante nostalgia, seduti ai margini dei binari di quella ferrovia che scorre, fugge via lontano e attraversa i nostri pensieri perché, in fondo, i veri protagonisti della commedia umana di Rea siamo noi: noi costantemente posti davanti a un bivio, noi che ancora amiamo smarrirci in quel labirinto di strade che è la vita.

 

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