Natalia Ginzburg e la semplicità della grandezza

Quanto ci manca Natalia Ginzburg, la sua eleganza, la sua classe, la sua scrittura dolce e potente al tempo stesso! Quanto ci manca la sua capacita di raccontare e di dar voce e spessore anche agli aspetti apparentemente secondari, talvolta quasi infinitesimali, di ogni singola questione!

Ci manca, soprattutto, perché ci accorgiamo, ogni giorno che passa, di vivere in una società nella quale ciò che manca maggiormente è proprio la capacita di trasmettere emozioni, di far vivere un pensiero nobile, di dare un senso alla storia e alle singole vicende umane, di considerarle nel loro insieme e nella loro complessità, di delineare un quadro sociale e di inscrivervi le avventure personali dei vari protagonisti. 

In Natalia Ginzburg, di cui quest’anno ricorrono sia il centenario della nascita sia i venticinque anni dalla scomparsa, questo “lessico famigliare”, questa naturalezza spontanea, questa genuinità verace e pungente, questa abilità nel raccontare il mito dissacrandolo, questa bellezza interiore in grado di trasformarsi rapidamente in voci e, successivamente, in parole, infine in dialoghi e poi in romanzi destinati a modificare radicalmente il panorama culturale e letterario del nostro Paese, tutte queste virtù erano innate e attenevano, con ogni probabilità, a una biografia che coincide per intero con il “Secolo breve”, con i suoi drammi e con le sue speranze.

L’ebrea Natalia Levi che sposò l’italo-polacco Leone Ginzburg, antifascista e martire della Resistenza, conservandone il nome affinché non andasse perduta la memoria di un uomo che aveva dedicato la vita a combattere per i suoi ideali, questa donna singolare e battagliera, animata da un pensiero filosofico elevatissimo e, al contempo, da una rara abilità nel posare lo sguardo sulle semplici storie degli ultimi, è stata una delle migliori protagoniste di quell’universo della Sinistra Indipendente che trovò nel PCI berlingueriano un rifugio e un approdo, un luogo di elaborazione delle proprie idee e la possibilità di trasformarle in proposte concrete.

Natalia Ginzburg, infatti, ha sempre vissuto a stretto contatto con una giovinezza mai dimenticata, con le sue gioie e le sue tragedie, le sue contraddizioni, i suoi paradossi e il suo snodarsi nel trentennio peggiore del Novecento, a cavallo fra le due guerre mondiali e poi nell’Inferno di un conflitto che ha abbattuto le residue certezze rimaste e si è conficcato nella carne viva di una generazione, segnandone la sconfitta esistenziale e animandone i propositi di riscatto.

Natalia Ginzburg e la Einaudi dei Revelli e degli Jovine, dei Raf Vallone e di Cesare Pavese: un intellettuale, quest’ultimo, amaro e malinconico, capace di amare in maniera viscerale e, infine, vittima dei propri sentimenti, della propria complessità, dei propri tormenti e del rigetto da parte di una società che si stava lentamente snaturando, già allora, tanto da indurre la stessa Ginzburg a riflettere con dispiacere sul progressivo tradimento degli ideali che avevano animato la Resistenza.
Una donna fuori dal tempo e, tuttavia, sempre al centro delle vicende della sua epoca, apparentemente naïf e invece viva, presente, in grado di scandagliare l’animo umano come pochi altri grandi scrittori hanno saputo fare e di coglierne ogni sfumatura, compresi gli aspetti più reconditi, comprese le pecche più nascoste, compresa quella bellezza involontaria che ciascuno di noi si porta dentro e che, a pensarci bene, è il propulsore che ci fa andare avanti nei momenti difficili, come una sorta di riserva implicita di ottimismo che ci induce a credere in noi stessi e a sfidare le avversità.

E poi la Ginzburg politica, firmataria di un appello contro la morte assai controversa dell’anarchico Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano tre giorni dopo la strage di piazza Fontana; una Ginzburg sempre più al centro della scena e della lotta, anche forzando se stessa e la propria indole pacata e riflessiva, in quanto sentiva di doverci essere, di dover tornare pienamente partigiana, di non poter mancare l’appuntamento con la dignità dell’uomo e il riscatto di quelle idee di liberazione e di rivolta che avevano scandito i suoi vent’anni, fino a indurla a seguire il marito al confino di Pizzoli, in Abruzzo. 

Parlamentare, critica cinematografica, capace anche in quell’ambito di scrivere pagine memorabili e di far intendere sotto una luce diversa il pensiero e l’opera di un gigante quale Ingmar Bergman, donna convintamente di sinistra e orgogliosamente ebrea ma, al tempo stesso, convinta della necessità di mantenere il crocifisso nei luoghi pubblici, in quanto vi vedeva un simbolo di umanità e non apprezzava il furore iconoclasta già all’epoca assai diffuso, foriero non di una svolta laica e di un’analisi più autentica e meno dogmatica delle singole vicende, comprese quelle bibliche, bensì di una perdita di senso, di ideali, di valori e di spirito di comunità che è poi quello che è prontamente avvenuto nei tre decenni successivi. 

Natalia Ginzburg: un’esistenza intensa e vivace, spesa interamente al servizio della cultura e del prossimo, di una famiglia che è stata la sua forza e la sua dannazione, di un Paese che ha amato come pochi altri e di un bene supremo, oserei quasi dire di un’ideologia oggi misconosciuta, come la condivisione. 

Ci piace ricordarla con una pennellata di quella squisita umanità che sapeva esprimere nella sua scrittura avvolgente e nei suoi versi, dedicati in questo caso al compianto marito Leone: “Gli uomini vanno e vengono / per le strade delle città. / Comprano cibi e giornali, / muovono a imprese diverse. / Hanno roseo il viso, / le labbra vivide e piene. / Sollevasti il lenzuolo / per guardare il suo viso, / ti chinasti a baciarlo / con un gesto consueto. / Ma era l’ultima volta. / Era il viso consueto, / solo un poco più stanco. / E il vestito era quello di sempre. / E le scarpe erano quelle di sempre. / E le mani erano quelle che / spezzavano il pane e / versavano il vino. / Oggi ancora nel tempo / che passa sollevi il lenzuolo / a guardare il suo viso / per l’’ultima volta. / Se cammini per strada / nessuno ti è accanto. / Se hai paura / nessuno ti prende la mano. / E non è tua la strada, / non è tua la città. / Non è tua la città / illuminata. La città / illuminata è degli altri, / degli uomini che vanno / e vengono, comprando / cibi e giornali. / Puoi affacciarti un poco / alla quieta finestra / e guardare in silenzio / il giardino nel buio. / Allora quando piangevi / c’era la sua voce serena. / Allora quando ridevi / c’era il suo riso sommesso. / Ma il cancello che a sera / s’apriva, resterà chiuso / per sempre, e deserta / è la tua giovinezza. / Spento il fuoco, / vuota la casa”.

Una gelosa custode di memoria, questo è stata Natalia Ginzburg. Renderle omaggio, in questa stagione dedita alla rottamazione e all’oblio, è più che mai una forma di resistenza: etica, culturale e politica.

 

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