Industria 4.0: propaganda e realtà

C’è un gran parlare attorno a questo “nuovo concetto”: Industria 4.0. E se ne sa poco (a cominciare dal sottoscritto).

Mi pare che ci sia molta propaganda da un lato e dall’altro che è un fenomeno non di questi ultimi anni, ma che affonda nei primi anni 2000: vedi l’integrazione tra nuove tecnologie nell’ambito dei processi produttivi e una maggiore integrazione con una nuova struttura dei servizi alle imprese (anche qui assistita dall’informatica). Vedi il caso della Germania.

Le previsioni sul fronte della occupazione hanno del “catastrofico”: L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. L’Italia ne esce con un pareggio (200.000 posti creati e altrettanti persi), meglio di altri Paesi come Francia e Germania”.

Staremo un po’ a vedere. In queste mie osservazioni parto da ciò che viene scritto su Wikipedia a proposito di Industria 4.0, per andare indietro nella storia a partire da F.W. Taylor passando per N. Wiener per approdare a Ivar Oddone. Questo per significare che in questo percorso (come del resto in altri) non c’è l’one best way, ma che era possibile e (forse) è ancora possibile imboccare altre vie.

Industria 4.0 da Wikipedia

Il termine Industria 4.0 (o Industry 4.0) indica una tendenza dell’automazione industriale che integra alcune nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro e aumentare la produttività e la qualità produttiva degli impianti.

L’Industry 4.0 passa per il concetto di smart factory (la fabbrica intelligente) che si compone di 3 parti:

  • Smart production: nuove tecnologie produttive che creano collaborazione tra tutti gli elementi presenti nella produzione ovvero collaborazione tra operatore, macchine e strumenti.
  • Smart services: tutte le “infrastrutture informatiche” e tecniche che permettono di integrare i sistemi; ma anche tutte le strutture che permettono, in modo collaborativo, di integrare le aziende (fornitore – cliente) tra loro e con le strutture esterne (strade, hub, gestione dei rifiuti, ecc.)
  • Smart energy: tutto questo sempre con un occhio attento ai consumi energetici, creando sistemi più performanti e riducendo gli sprechi di energia.

La chiave di volta dell’Industry 4.0 sono i sistemi ciberfisici (CPS) ovvero sistemi fisici che sono strettamente connessi con i sistemi informatici e che possono interagire e collaborare con altri sistemi CPS. Questo sta alla base della decentralizzazione e della collaborazione tra i sistemi, che è strettamente connessa con il concetto di industria 4.0.

Origini del nome

Industria 4.0, o meglio, Industry 4.0 prende il nome dal piano industriale del governo tedesco (presentato nel 2011) e concretizzato alla fine del 2013, che prevedeva investimenti su infrastrutture, scuole, sistemi energetici, enti di ricerca e aziende per ammodernare il sistema produttivo tedesco e riportare la manifattura tedesca ai vertici mondiali rendendola competitiva a livello globale.

Il concetto di “Quarta rivoluzione industriale”

I risultati ottenuti dalla Germania a livello produttivo ha portato molti altri paesi a perseguire questa politica; per questo sono stati svolti numerosi studi fino ad ora: tra i più conosciuti, quelli di McKinsey[1], Boston Consulting e Osservatori del Politecnico di Milano[2]. Questi studi hanno portato a definire l’impatto che queste nuove politiche avranno sul contesto sociale ed economico, definendo questo passaggio storico “Quarta rivoluzione industriale”.

Dalla ricerca The Future of the Jobs[3] presentata al World Economic Forum è emerso che, nei prossimi anni, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni, come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro, stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni. L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. L’Italia ne esce con un pareggio (200 000 posti creati e altrettanti persi), meglio di altri Paesi come Francia e Germania. 

A livello di gruppi professionali, le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria. Cambiano di conseguenza le competenze e abilità ricercate: nel 2020 il problem solving (risoluzione di problemi) rimarrà la soft skill (le abilità) più ricercata, e parallelamente, diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività

La realtà dell’industria e dei servizi in Italia (dal censimento ISTAT del 2011)

 

Numero unità attive

Numero addetti

Numero lavoratori esterni

Numero lavoratori temporanei

Territorio

2001

2011

2001

2011

2001

2011

2001

2011

Italia 

4 083 966

4 425 950

+ 341.984

+ 8,37%

15 712 908

16 424 086

+ 711.178

+ 4,52%

627 607

421 929

– 205.678

– 32,77%

100 255

123 237

+ 22.982

+ 22,62%

Piemonte 

329 958

  • 338

+ 6.338

+ 1,92%

1 409 120

1 331 000

– 78.120

– 3,93%

45 708

28 167

– 17.541

– 38,37%

12 937

14 207

+ 1.270

+ 9,81%

Torino

168 948

174 209

+ 5.261

+ 3,11%

797 269

746 974

– 50.295

– 6,30%

26 030

17 558

– 8,472

– 32,54%

8 959

9 002

+ 43

+ 0,47%

Vercelli

13 009

12 657

45 162

42 343

1 385

623

314

358

Novara

25 611

26 632

112 435

100 418

4 084

2 254

772

1 283

Cuneo

45 679

47 408

171 919

185 894

5 408

3 168

1 314

1 853

Asti

15 820

16 370

53 266

52 593

2 005

748

265

481

Alessandria

32 364

32 100

119 846

115 535

3 824

2 229

725

739

Biella

15 893

14 627

68 629

52 417

1 754

895

362

322

Verbano-Cusio-Ossola

12 634

12 335

40 594

34 826

1 218

692

226

169

Cosa si può dire:

  • La stragrande maggioranza di queste aziende sono di piccole dimensioni e i proprietari sono relativamente giovani, quasi tutti pieni di intraprendenza. Dentro ci sta’ di tutto: dalla genialità, alla professionalità, al rispetto delle regole, alla ignoranza più crassa, al lavoro sottopagato, in nero, alla evasione fiscale e contributiva, fino agli odierni “forconi”. Li accumuna, nel periodo attuale, la stessa condizione: tutti con “la bocca alla canna del gas”. Quando vanno in banca trovano degli strozzini, mentre invece per le aziende grandi (magari con i debiti) c’è la manica larga;
  • Una minoranza di medie e grandi aziende, affermate da anni, però con imprenditori avanti con l’età, che non hanno più voglia di rischiare (l’hanno già fatto in gioventù), ora la villa c’è, la pelliccia per la moglie pure, i figli sono sistemati e i profitti sono remunerati non con la ricerca di produttività (quindi innovazione ecc.) ma con l’abbassamento del costo del lavoro, le esternalizzazioni, la delocalizzazione, la precarietà, la remunerazione del capitale in borsa e un eccetera sconfinato.
  • Contando il fatto poi che da qualche decennio in qua il nostro apparato produttivo è quantomeno un indotto della grande manifattura della Germania;
  • Quindi stando all’attuale “sciopero” sugli investimenti da parte di questo padronato, per ignoranza, ignavia, e con la filosofia di “farsi ricco in fretta”, ci sta’ portando se non allo sfracello, comunque ad un declino inarrestabile;

Ed è a partire da questi nudi dati e da queste mie personali considerazioni che io non vedo nel panorama italiano qualche cosa che assomigli anche lontanamente ai postulati della Industria 4.0. se non per la propaganda che se ne fa.

Andiamo un po’ indietro: con Taylor

  • Perché Taylor? Perché mentre Owen che pur chiedeva una maggior cura degli operai si limitava a considerarli “braccia” e pensava che si dovesse curare la loro manutenzione. Anche Marx li considerava “braccia” che dovevano essere valutati di più in rapporto al plus valore legato all’importanza di tener conto che solo la loro esigenza garantiva la possibilità del lavoro industriale.
  • Interessa molto di più per il suo peso nello sviluppo dell’organizzazione industriale. 
  • Taylor sottopose alla Comunità scientifica il problema della realizzazione di una “scienza che raccogliesse quello che gli operai sapevano (imparandolo sul lavoro) e che valeva almeno quanto quello che sapeva la direzione”. A questa richiesta la Comunità scientifica non rispose mai se non in modo che si può tranquillamente definire ridicolo con “l’one best way”: basta solo tradurlo “l’unico modo, il migliore”.
  • Oggi è però possibile partire da quella esperienza e dalla risposta della Fiat (oggi FCA) ricuperare i prodotti di allora ancora non utilizzati neppure sul terreno della nocività  e anche sul terreno professionale, ponendo al centro dell’organizzazione industriale l’uomo che esegue e fa esperienza e la cui esperienza grezza va perduta, anche per chi come Marchionne vorrebbe credere di essere in grado di garantire la tracciabilità del prodotto senza conoscerlo da chi produce di fatto e completa il prodotto facendo esperienza cibernetica.

Passando per Wiener

  • Perché Wiener: il libro  sulla Cibernetica di Wiener che l’autore aveva scritto nel 1949 (!) con il titolo “Uso umano degli essere umani” dichiarando, nella sua prefazione, che il libro era scritto per la vergogna, dovuta all’ideologia fascista ed ai padroni dell’industria, che “è una degradazione della condizione umana legare un uomo ad un remo come sorgente di energia(il riferimento è al mondo antico, schiavistico), ma è altrettanto degradante segregarlo in una fabbrica e assegnarlo a un compito meramente meccanico che richieda meno di un milionesimo delle sue facoltà cerebrali.. ma verrà un giorno che questo essere umano si ergerà in tutta la sua potenza”.

Per approdare a Ivar Oddone

  • Perché Oddone: per la Dispensa sull’Ambiente di Lavoro, per i corsi sulle 150 ore all’Università su “Psicologia del lavoro”, con l’invenzione delle “istruzioni al sosia”; per il libro (in parte illustrato) “Medicina preventiva e partecipazione”; per il “Progetto San Donato”, a Torino con la giunta di D. Novelli; per il SIE, in Italia con la CGIL Nazionale; per il SIC in Francia presso una “mutuelle” a Port de Boc e Martigues;
  • Per una riflessione di Oddone avvenuta in tarda età sulla sua esperienza derivante dalla “Dispensa sull’Ambiente di Lavoro”. Mi diceva che lui era convinto che il massimo di produttività che un operaio poteva dare era legato al fatto di lavorare in un ambiente dove i rischi alla salute fossero ridotti o molto vicini allo zero: mi sono sbagliato! L’opzione zero rischi, è una precondizione necessaria ma il cammino è tutto da fare.
  • Inoltre lui che aveva spiegato negli anni ‘60 a me e decine di altri sindacalisti da dove arrivava il famoso 133 di rendimento (la “religione”) che informava gli uffici analisi lavoro e tempi e metodi di tutte le fabbriche manifatturiere e quindi di tutti i “cronometristi”, alla fin fine diceva che il 133 poteva andare bene per un cavallo dove le risorse stavano solo nei muscoli, ma non nell’uomo che le proprie risorse le ha nel cervello.

E CONTINUAVA, OCCORRE UN CAMBIO DI PARADIGMA: Occorre partire dal progettare una carriera dell’operaio che deve significare quindi dare un nuovo significato alla PRODUTTIVITA’: fare il massimo con il minimo sforzo; quindi ciò significa riconoscere che gli operai sono persone pensanti, che se “allenati, motivati, retribuiti, ecc.” (alla maniera per es. di un calciatore) possono dare molta, molta più produttività;

Nel progettare la “carriera dell’operaio” vanno previste quindi tutte quelle riappropriazioni tecnico-scientifiche (oggi in mano agli “istruttori”) che rendano sempre più ricco, interessante il lavoro dell’operaio;

Quali le condizioni per le quali ciò si avveri

Obiettivi

Condizioni 

Trovare lavoro – puntare alla sua riduzione

  • Ridurre drasticamente la precarietà, e la flessibilità in azienda. Incentivare il lavoro di gruppo: è nel lavoro collettivo che si impara di più dai lavoratori esperti (attraverso l’uso della tecnica delle “istruzioni al sosia”).
  • Inoltre, a fronte dell’uso di nuove tecnologie (robot, ecc.) specie nei cicli di lavoro a rischio per la salute, andare ad una riduzione degli orari di lavoro;

Lavoro non nocivo anzi coerente con la salute in senso complessivo

  • Abbattere tutte le forme di nocività conosciute: sono loro, gli ambienti, inidonei, e non gli operai che quando lo diventano sono un peso sul rimanente degli altri operai e un costo sociale
  • Se si vuole che un operaio dia il meglio di sé occorre quindi liberarlo dalle forme di gravosità, di costrizione (alla Marchionne per intenderci) che non tolte portano gli operai ad un uso del tempo altro, lontano dalla produttività

Lavoro riconosciuto come produttore di esperienza grezza

Se viene riconosciuto significa un arricchimento complessivo dell’azienda

Lavoro riconosciuto dalla società come lavoro sociale

Se viene riconosciuto deve significare un salto nella scala sociale (quindi va certificato) e un adeguato riconoscimento retributivo

Inoltre se al centro ci deve essere “l’uomo produttore”, tutto il resto le macchine (i robot e ogni altra diavoleria) deve essere al suo servizio – non il contrario!

Fin qui Taylor, Wiener, Oddone, di mio…

Intanto una riflessione: ammettiamo per un momento che i lavoratori tutti (a partire dagli operai) abbiano intrapreso la loro “carriera”, diventando sempre più bravi e produttivi, significa che i loro imprenditori non devono diventare anche loro sempre più bravi? A me non pare proprio…

Da dove ripartire: Antonio Calabrò nel libro Orgoglio Industriale, Ed. Mondadori, ci dice che nel 2008 su ca 4milioni di aziende (vedi i dati ISTAT 2011) ce ne sono 4.600 (lui le chiama “multinazionali tascabili”) che vanno dai 50 ai 500 addetti, 600 di queste hanno più di 500 addetti che forse ci tireranno fuori dalla crisi. 

Domanda: chi le conosce, cosa producono e per chi, e cosa fa lì il sindacato (posto che ci sia)? Domanda successiva: è una bestemmia pensare di poter costruire a sinistra (dai sindacati) un archivio di queste aziende per portarle all’onore del mondo, per tentare di farle mettere in contraddizione con il resto delle imprese, rima che la crisi sia occasione di adeguamento alla normalità rappresentata dalla crisi e dalla recessione? per tentare una sorta di “alleanza dialettica” con il movimento dei lavoratori. Non fosse altro perché in questo campo vi sono senz’altro le possibilità di un “conflitto” più avanzato e non solo sulla difensiva. Inoltre l’Assolombarda ha censito in Lombardia 60 aziende esemplari che fanno parte di un altro archivio: “L’INDUSTRIA ITALIANA CAMBIA VOLTO” di ca. 530 imprese (vedi la ricerca Conoscenza e crescita: le nuove strategie delle imprese del sistema Confindustria – Centro Studi – Progetto Focus Group). Di queste imprese si sa il nome, l’ubicazione, il prodotto, il mercato e un eccetera sconfinato.

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