Diem 25 e l’Europa di cui avremmo bisogno

Un pomeriggio romano in pieno centro, presso la Cappella Orsini in via di Grottapinta, zona Campo de’ Fiori, la presenza di Yanis Varoufakis, fondatore del movimento internazionale Diem 25 nonché ex ministro ribelle del primo governo Tsipras, poi sostituito dal più ligio ed “europeista” Tsakalōtos, e un discreto numero di partecipanti ad un’assemblea che denota quanto il bisogno di sinistra sia ormai diffuso ben al di là delle previsioni e delle più rosee aspettative degli organizzatori di questo genere di incontri.

Perché il 2016 ha cambiato per sempre l’immaginario dell’Occidente, ponendo bruscamente fine a tutte le certezze di cartapesta che il trentennio tragico liberista aveva disseminato lungo il cammino, di fatto avvelenando i pozzi e costringendo almeno due generazioni a un’esistenza precaria, all’insegna di un lavoro di scarsa, per non dire nulla, qualità e ancor minore dignità, e a all’impossibilità di costruirsi un futuro all’altezza non tanto delle proprie ambizioni ma, quanto meno, degli obiettivi minimi raggiunti dai propri genitori: una casa, una famiglia e qualche garanzia in merito al fatto che studio, impegno e sacrifici consentano davvero di emergere e di conseguire un livello di benessere degno di un Paese del G7.

Sono venuti, dunque, al pettine tutti i nodi di una globalizzazione iniqua e sregolata, pericolosa ed escludente, dalla quale ha tratto benefici soltanto l’un per cento della popolazione, ai danni del restante novantanove per cento, il quale ormai è arrivato al punto di non poterne più, essendosi rotti tutti i meccanismi di solidarietà, di welfare e di aiuto alle fasce sociali più deboli e in difficoltà che avevano caratterizzato il trentennio glorioso del dopoguerra e, in parte, anche i tre decenni successivi.

E così, dopo la Brexit, dopo Trump e dopo il referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre, ecco che per la prima volta ho avuto la percezione che qualcosa si sia messo in moto per davvero, a livello mondiale, come se l’attesa e la speranza dei mesi precedenti avessero ceduto finalmente il passo alla convinzione che questo sia il momento opportuno per restituire un senso a quei princìpi di solidarietà, uguaglianza, fratellanza, libertà dal bisogno, condivisione, comunità, giustizia sociale, sviluppo equo e sostenibile, lotta all’austerità selvaggia e fine a se stessa, modifica del paradigma economico dominante e costruzione di una società a misura d’uomo che trent’anni di liberismo devastante hanno irriso e riposto in soffitta, salvo poi essere travolti da una crisi senza precedenti e dalla necessità di mettere in discussione i capisaldi di un modello ormai palesemente insostenibile. 

Ed ecco, quindi, che intorno all’affascinante leader greco, artefice di una strenua battaglia contro la Troika, un nutrito gruppo di persone, molte delle quali sotto i trent’anni e qualcuna poco al di sopra, ha trascorso insieme diverse ore a ragionare sull’idea di Europa che vorremmo, su come riprendere possesso del nostro futuro, su come tornare ad essere protagonisti attivi della società, su come rifondare il concetto stesso di Europa su nuove basi, su nuovi paradigmi e su nuovi pilastri culturali, prima ancora che politici, e su come far rivivere lo spirito dei padri fondatori, totalmente in contrasto con i dogmi di una tecno-burocrazia ottusa e non eletta da nessuno che è, essa sì, la principale nemica del progetto europeista, avendolo scisso dalla necessità di farlo vivere all’interno di un quadro ben preciso di regole uguali per tutte e attente alle esigenze dei cittadini. 

Per la prima volta, ve lo confesso, sono uscito da questa nicchia romana con l’impressione che il vento globale della repressione dei sogni e delle speranze di milioni di persone sia stato costretto a cambiare dalla radicalità di una rottura che non ha nulla a che vedere con i tiepidi passaggi dei decenni precedenti, essendo ormai chiaro che anche la Terza via di Giddens e delle socialdemocrazie snaturate degli anni Novanta abbia fatto epoca e sia da consegnare all’analisi storica, considerando la sua improponibilità nel quadro di un Occidente in cui si è fermato l’ascensore sociale e, come detto, almeno due generazioni hanno la certezza paralizzante che staranno peggio rispetto ai propri genitori; l’unica certezza di esistenze, per il resto, affidate agli umori di un mercato che ormai non riesce a regolare più nemmeno se stesso, figurarsi l’andamento economico della società. 

Sono uscito da questo evento di Diem provando a immaginare, nel mio piccolo, come potrebbe essere l’avvenire del Vecchio Continente nei prossimi dieci anni. Sono uscito osservando il misero giaciglio di un barbone e riflettendo sul fatto che non c’è bisogno di fissare le immagini dei disperati che scappano dalla Siria per avere ben chiaro quanto sia iniquo questo assetto globale, avendocelo sotto gli occhi a ogni piè sospinto. Sono uscito da questo sabato di inizio gennaio, nel gelo di temperature artiche, chiedendomi come possa dare una mano, come possa contribuire, con i miei pochi mezzi, al cambiamento di cui tutti avvertiamo il bisogno e che ormai non è più procrastinabile. E mi sono detto che, in fondo, anche la curiosità di essere andato ad ascoltare, a capire, a sondare gli umori e cercare amici e, più che mai, compagni per dar vita a un nuovo inizio fosse già qualcosa. Qualcosa di importante, dopo troppi anni di apatia, torpore e tradimenti da parte di una sinistra che non è stata semplicemente assente, come vogliono farci credere gli ottimisti e i giustificazionisti a oltranza di determinate scelte, bensì, nel suo complesso, complice e, a sua volta, artefice della carneficina sociale che oggi le si ritorce contro, avendo i popoli deciso di dire basta, smettendo di arrendersi in solitudine e in silenzio.

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