Il 2010 in America Latina

ROMA – Una certa storiografia un po’ ammuffita, che di buon grado è andata a braccetto con la politica degli ultimi decenni del secolo XX°, avrebbe voluto ricordare il 2010 dell’America Latina per l’inizio delle commemorazioni del duecentesimo anniversario dell’indipendenza dalla Spagna.

Il processo autonomista inizia infatti nel 1810 (dopo un fallito tentativo nel 1809 nell’attuale Bolivia) per concludersi nel 1826 (tranne Cuba, Puerto Rico e alcune aree rimaste in mano alle vecchie potenze imperiali o acquisite, negli anni, dagli Stati Uniti1). Riconosciamo l’importanza del processo anticolonialista latinoamericano ma anche i fallimenti, le debolezze e il sopravvento delle forze neocoloniali per impedire la realizzazione del processo di portata continentale ed economicamente indipendentista di José de San Martìn, Manuel Belgrano, Antonio José de Sucre, e, soprattutto, la visione progressista di José Artigas e, allo stesso tempo, unitaria di Simón Bolívar. Al colonialismo della vecchia e debole Spagna subentrarono la dinamicità inglese e pian piano la forza egemonica, produttiva e militare, statunitense, con le loro flotte, le merci, i consiglieri militari ed economici, la sterlina e il dollaro, l’immaginario simbolico dei nuovi media e dei prodotti di consumo di massa capaci di essere planetari (il cinema, la tv, i nuovi stili musicali, le bevande e il cibo globale). Una parte della vecchia Europa e gli Stati Uniti fecero del continente il loro magazzino di materie prime e prodotti alimentari, un’immensa terra vergine, ricca e poco popolata, da sfruttare al meglio e ne ottennero il carburante per la megamacchina occidentale che ha egemonizzato il pianeta; senza rispetto ed etica, per le popolazioni originarie in primis, spietatamente sterminate o ridotte in inferiorità fin dall’arrivo dei primi coloni, ma anche per le nuove Repubbliche creole che tentarono di dare dignità e organizzazione ai nuovi Stati nati proprio dal processo di distacco dalla decaduta Spagna imperiale.

Il 2010, e il decennio che lo ha preceduto, hanno, invece, ben altro da ricordare rispetto alle manifestazioni commemorative dell’indipendenza e i fatti lo hanno dimostrato. Dopo l’inaspettata vittoria di Hugo Chávez in Venezuela, nel 1998, e il suo graduale spostamento verso politiche progressiste e di riacquisizione della sovranità nazionale sottratta dalle imprese multinazionali e, soprattutto, dopo il 2002, con la resistenza popolare al golpe oligarchico supportato da forze straniere (guarda caso statunitensi ed europee) contro lo stesso Chávez e la vittoria di Luiz Iñácio Lula da Silva in Brasile, il continente si è progressivamente orientato verso governi più autonomi dalle potenze straniere, inclusivi verso le popolazioni indigene e i ceti più poveri, a favore di un reale controllo pubblico delle risorse naturali nazionali e capaci di mettere un freno alle politiche ultraliberiste che avevano creato illusioni e poi sconquassi finanziari aumentando la povertà.

La sorpresa, per i detrattori delle politiche inclusive e sociali, è stata la capacità di questi governi di riorganizzare una macchina statale inesistente e corrotta e di dare, insieme a un primo abbozzo di politiche sociali, ricchezza, accumulazione e introiti tributari. Tutto ciò ha permesso un rafforzamento delle istanze continentali (UNASUR e il Consiglio per la Difesa Continentale, Banco del Sur, PetroCaribe, ALBA) e, conseguentemente, il fallimento, nel 2005, dell’ALCA (Accordo di Libero Commercio delle Americhe), lo strumento strategico propugnato dagli USA, prima da Clinton e poi da Bush junior, per riportare i paesi latinoamericani nell’orbita economica statunitense spezzandone le possibilità di una politica internazionale e commerciale indipendente. Questa maggior autonomia sullo scacchiere planetario è invece diventata realtà ed è uno dei motivi di maggior allarme per New York e i suoi alleati. Cina, India, Russia, Sudafrica e Iran si muovono ormai nel continente firmando accordi e ottenendo commesse, conquistando, per gradi, pezzi di egemonia geocommerciale e geopolitica che, se a volte fa scandalizzare i nostri mezzi di comunicazione per l’espansione di Stati ritenuti non democratici, non turba minimamente i sonni dei cittadini o delle imprese degli stati latinoamericani che finalmente riescono a comprare, vendere e contrattare prodotti alla pari con i loro interlocutori. È questo processo in corso ciò che lascia il decennio trascorso e che il 2010 ha confermato, pur introducendo elementi di criticità: una ritrovata dignità degli stati latini del continente americano, il loro protagonismo internazionale collegato a una maggior autonomia sia economica che politica, la forza dei movimenti sociali e indigeni, l’introduzione di politiche progressiste, che sembravano dover essere abbandonate in tutto il pianeta, e una loro efficacia, un rimescolamento nei rapporti di forza continentali all’interno della geopolitica internazionale.

Se passiamo ad un rapido excursus degli avvenimenti dell’anno trascorso dobbiamo ricordare i terremoti di Haitì e del Cile, due paesi agli antipodi sia del blocco geografico che prendiamo in considerazione sia per la struttura socioeconomica. Il sisma di Haitì2 ha confermato le difficoltà del paese caraibico, il più povero del continente ma, soprattutto, il più condizionato dalle politiche decise dalle potenze mondiali, che non è riuscito a seguire l’onda del cambiamento continentale e che, forse perché troppo vicino, sia agli Stati Uniti che a Cuba, si trova ancora stretto in questa morsa, distrutto, dipendente, occupato militarmente e senza prospettive di riscatto a breve termine.

 

Il terremoto del 2010 in Cile, per alcuni aspetti il paese più occidentale dell’area, ci ha mostrato alcuni aspetti involutivi proprio di questa cultura: il modo in cui è stato ‘utilizzato’ il sisma, e poi il salvataggio dei 33 minatori, ci riporta all’‘arrivano i nostri’ del nostro modello comunicativo, con i buoni che alla fine prevalgono e sciolgono tutto in un happy end che cancella in un sol colpo i conflitti, le criticità e le ingiustizie di un’organizzazione sociale sempre più fatto a misura dei ricchi, di una piccola e ‘da ammirare’ porzione della popolazione che riempie rotocalchi patinati, quotidiani, televisioni ed eventi sportivi da loro stessi posseduti o controllati. L’elezione del miliardario Sebastián Piñera, il tentativo di dimenticare in fretta e senza conseguenze le atrocità della dittatura di Pinochet, la marginalità e la violenza con cui vengono trattate le combattive popolazioni native dei mapuche, che rivendicano un loro posto in questo Cile di plastica, ci confermano quanto gli avvenimenti del 2010 ci hanno fatto vedere, come anche la distanza del Cile dagli sforzi inclusivi delle popolazioni indigene realizzati dalla Bolivia di Evo Morales e dall’Ecuador, con la nuova cultura del Sumak Kawsay, del Buen Vivir contenuta nelle loro nuove Costituzioni che guardano al passato e al futuro con occhi propri e non solamente con le lenti che l’Europa e gli Stati Uniti hanno imposto per secoli al continente.

In Messico, invece, la violenza straripante ha raggiunto il suo apice nell’anno trascorso, soprattutto nelle città vicine alla frontiera statunitense, laboratorio del capitalismo più selvaggio: delle maquilas3 e dei migranti alla disperata ricerca di varcare quel confine, simbolo del meccanismo inceppato dell’integrazione del NAFTA4 che permette il rapido passaggio di merci, prodotti e capitali, sgravati di dazi, ma non ha attuato le misure per consentire la libera circolazione di persone come era previsto nella seconda fase dell’Accordo.

In Ecuador un anomalo sequestro del popolare Presidente Rafaél Correa da parte di alcuni poliziotti che manifestavano contro una legge che riformava il loro settore, ha rischiato di trasformarsi in un golpe militare e di bloccare il processo di cambiamento nell’area dove questo procede con maggior speditezza, nel cuore delle Ande. Un nutrito numero di manifestanti è sceso in piazza pacificamente a sostegno del Presidente, probabilmente evitando che l’azione arrivasse a conseguenze conflittuali peggiori. Lo stesso Correa ha dichiarato che il Presidente Barack Obama gli ha dato il suo conforto, ma l’appoggio internazionale a questi processi democratici, anche dall’Italia e dall’Europa, dovrebbe essere più chiaro e netto, come non è avvenuto, a livello diplomatico, nel caso del colpo di stato in Honduras, dove nel 2010 si è insediato Porfirio Lobo Sosa, dopo un periodo transitorio che ha seguito il golpe del 2009, con elezioni tenutesi senza i livelli minimi di agibilità democratica e una forte repressione verso i movimenti contadini e i sostenitori del deposto Presidente Manuel Zelaya. Gli Stati Uniti, soprattutto la potente Segretaria di Stato Hillary Clinton, hanno guidato il processo di mediazione e non possono quindi dichiararsi estranei da quanto avvenuto nel paese centroamericano, con un Presidente esiliato, un processo di riforma costituzionale azzerato, un’elezione ‘democratica’ ma senza i presupposti di partecipazione libera e popolare, repressioni, uccisioni, violenze e abusi nei confronti dei leader sindacali e dei movimenti sociali. Tornando alle Ande, il 2010 ha visto i governi di Bolivia ed Ecuador trovare le prime vere difficoltà nell’attuazione delle nuove Costituzioni, entrate in vigore nel 2009 (Bolivia) e fine 2008 (Ecuador), portatrici di nuovi diritti, di tutela della natura e, per la prima volta, di inclusione delle popolazioni indigene originarie. I movimenti che rappresentano questi popoli chiedono maggior incisività nella realizzazione di un modello socioeconomico critico e alternativo allo sviluppo convenzionale e una costruzione multiculturale che arrivano a definire plurinazionale. Morales e Correa, pur dichiarandosi favorevoli a tale impostazione non riescono a sottrarsi dal modello secolare delle loro economie e società, estrattiviste e basate sull’esportazione di materie prime, che comporta la collaborazione di imprese transnazionali straniere e il danneggiamento di vaste aree naturali e zone ancestralmente in uso alle comunità indigene. I due governi utilizzano le maggiori risorse che ottengono dal più oculato controllo delle risorse per creare o allargare il debole stato sociale (attraverso pensioni, servizi sociali, buoni di studio, ecc.) e realizzano, così, una certa ridistribuzione e un’area importante di consenso politico; cose a cui non vogliono rinunciare. Nel 2010 manifestazioni e proteste hanno scosso la fermezza dei due capi di Stato e creato qualche problema politico ma sono state anche un campanello d’allarme positivo per riprendere il cammino verso il Buen Vivir che non sia solo uno slogan ma una reale trasformazione, radicale, che vede, per la prima volta nella storia, il protagonismo delle popolazioni originarie e mette in discussione alcune basi concettuali dello sviluppo occidentale. Il tempo e la forza sono, attualmente, dalla parte di Morales e Correa che dovranno essere capaci di dialogare e includere proposte innovative nelle loro politiche e dalla parte delle popolazioni indigene che dovranno avere la pazienza di trovare i necessari consensi anche negli altri gruppi sociali. A livello internazionale bisognerebbe avere maggior rispetto di questo processo innovativo, democratico, di difesa dell’ambiente e di razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse, necessità urgente per tutto il pianeta e che in quei paesi potrebbe trovare un modello. Non aiutano certo, da parte statunitense, le ingerenze in affari delicati come le propensioni secessioniste delle ricche regioni orientali della Bolivia5, la riattivazione e rafforzatamento della IV° flotta e la volontà di aumentare le sue basi militari nel continente appoggiandosi ai paesi alleati, come la Colombia, dove, nel 2010, c’è stata una riconferma della linea politica con la vittoria di Juan Manuel Santos, l’inconsistenza di una alternativa e le FARC sempre più arroccate a difesa delle aree di produzione di coca sotto il loro controllo. L’obiettivo dichiarato degli Stati Uniti è quello di contrasto verso il narcotraffico ma, nel concreto, vogliono ribadire la loro supremazia e la possibilità di intervenire a difesa dei loro interessi nel continente, soprattutto nei paesi ritenuti più a rischio, che sono proprio la Bolivia, l’Ecuador, il Venezuela.

La reazione di questi ultimi ha visto fatti concreti nell’anno appena trascorso. Il 15 ottobre Hugo Chávez ha visitato il suo omologo Medvedev a Mosca per firmare trattati energetici, per la costruzione della prima centrale nucleare a usi civili sudamericana, per continuare la cooperazione tecnico-militare e acquistare 35 carri armati T-72 e T-90. La Russia ha firmato anche con l’Argentina, ad aprile, un accordo di cooperazione nucleare e ci sono programmi per la partecipazione di Gazprom nella realizzazione di un gasdotto per collegare la Bolivia con l’Argentina. Importanti anche gli accordi industriali e minerari dell’Iran con Bolivia ed Ecuador, militari dell’Ecuador con Cina e Iran, del Brasile a tutto campo per i settori energetici, nucleari e militari con Cina, Russia ed Iran. Tutti firmati o confermati nel corso del 2010.

Nonostante i ripetuti avvertimenti degli Stati Uniti, in particolare del portavoce ufficiale del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, che fanno seguito agli accordi sulle questioni più delicate, la cooperazione multipolare e l’allargamento verso paesi ostili ai nordamericani hanno avuto un sensibile rafforzamento nell’anno trascorso mentre il potenziale riavvicinamento degli USA ai paesi a governo progressista, favorito dalla figura personale di Barack Obama, non ha avuto gli effetti sperati, anche per lo scarso impegno di quest’ultimo nell’area e l’egemonia della Clinton e degli interessi delle multinazionali presenti.

Uno degli elementi fondamentali che ha permesso la continuazione dei processi di cambio in America Latina è stato certamente il basso impatto della crisi finanziaria in questa area: oltre ad averla ben contenuta, per la prima volta nella storia, il 2010 vede un recupero della crescita nettamente superiore a Stati Uniti ed Europa: Il 5% medio contro il 2,6% e l’1,7%. Le economie maggiori sono cresciute a ritmi da noi impensabili: il 7,6% in Brasile con aumento dei posti di lavoro, credito e consumo (è stata superata la soglia di 1 cellulare per abitante e 1 milione e mezzo di cittadini brasiliani, per la prima volta nella loro vita, ha viaggiato in aereo); vicino al 9% in Argentina, con una buona introduzione di politiche sociali. Importanti sono i fattori ritenuti responsabili di questo buon andamento economico secondo il maggior rappresentante della Banca Mondiale per l’America Latina e i Caraibi, Augusto de la Torre. Anzitutto la trasformazione di fattori nel passato deboli come la moneta e i settori fiscali e finanziari, poi la diversificazione commerciale internazionale (che lì ha portati oltre l’Europa e il nord America), l’elevazione del prezzo delle materie prime. Tutti elementi legati al rafforzamento della sovranità nazionale sulle risorse, all’introduzione di imposte e di regole verso le banche e le imprese straniere, creati o rafforzati dai nuovi governi progressisti.

Il 2010 in America Latina si è chiuso con la vittoria di Dilma Rousseff in Brasile, lo Stato più importante del continente, che durante l’anno ha rafforzato il suo ruolo nella scacchiera mondiale: oltre agli accordi internazionali, c’è stata la scoperta di importanti giacimenti petroliferi marini; ha ottenuto i campionati mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016 (le prime in assoluto per il sudamerica); ha svolto uno strategico ruolo diplomatico nella crisi del nucleare iraniano6; ha portato proposte innovative nelle riunione dei G2O dei paesi industrializzati7 ma continua, allo stesso tempo, a tenere in piedi il G20 dei paesi in via di sviluppo8. Questa fondamentale vittoria elettorale, per niente scontata nonostante i grandi successi e la popolarità del suo predecessore Lula da Silva, è anch’essa una conferma dell’indipendenza e del nuovo protagonismo assunto dall’America Latina, conferma la possibilità di sganciamento dagli Stati Uniti, di rafforzamento di nuove opzioni politiche e di una maggior unità continentale. Sarà un perno per contribuire a salvaguardare alcune delle esperienze politiche continentali più fragili. La Rousseff avrà anche una maggior capacità di alleanza parlamentare per portare avanti i processi rimasti incompleti, come l’assegnazione di terre incolte, una maggior protezione ambientale e una ridistribuzione più legata alle istanze dei movimenti sociali e meno al semplice assistenzialismo.
Per concludere non possiamo dimenticare altri due importanti avvenimenti del 2010: il premio Nobel per la letteratura a Mario Vargas Llosa, magnifico narratore della complessità culturale e sociale latinoamericana, ma poco sognatore, ondivago e rancoroso in politica, che riporta il premio in America Latina, che lo avrebbe meritato più volte e con più autori; e la scomparsa prematura di Néstor Kirchner, che aveva ridato dignità al popolo argentino umiliato dalle illusioni di facile arricchimento e piombato in una terribile crisi esplosa tra il 1999 e il 2003. Ha lasciato più sola la Presidente in carica, sua moglie Cristina Fernández, a fronteggiare il ritorno della destra oligopolista, ma il suo esempio potrebbe ridare al paese la forza per non lasciarsi riassorbire dai vecchi potentati economici nelle prossime elezioni presidenziali, tra gli avvenimenti più importanti che ci aspettano nel 2011.

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