Torino: Fassino, occhio al grillismo di governo!

ROMA – Per comprendere il senso della sfida di Torino, credo sia illuminante leggere quest’analisi pubblicata sulla rivista “il Mulino” dal professor Giuseppe Berta: “Per Torino, come del resto per altre grandi città che sono nell’imminenza delle elezioni municipali, si è voluto ricorrere allo stereotipo del  partito della nazione  allo scopo di rendere conto delle alleanze larghe perseguite dal sindaco in carica, Piero Fassino, e delle liste che lo sostengono allo scopo di conquistare un secondo mandato.

Ma non è il caso di chiamare in causa le strategie nazionali, effettive o meno, di Matteo Renzi per spiegare come mai il campo elettorale del centrosinistra si stia ampliando per trarre beneficio, oltre che dall’apporto di formazioni centriste, dal sostegno di esponenti di un tempo di Forza Italia e del centrodestra. Certo, può far scalpore che Enzo Ghigo, a lungo presidente della Regione Piemonte e personaggio di spicco del mondo berlusconiano, indichi in Fassino un buon amministratore da riconfermare nella sua carica. Colpiscono di più, semmai, i reiterati tentativi di scegliere come candidato dello schieramento di destra un personaggio che non solo sembra designato apposta per non danneggiare in alcun modo Fassino, ma che è addirittura il suo vice all’ANCI, l’Associazione dei comuni presieduta dal sindaco di Torino. Anche qui, tuttavia, non si tratta delle prove tecniche del <>, quanto dell’orientamento di un establishment locale piuttosto rassegnato circa la necessità di fare blocco, persuaso che per difendere la propria posizione e il proprio radicamento nelle istituzioni territoriali occorra unire tutte le forze disponibili”.

Ancora più incisiva la critica vergata da Luciana Castellina sulle colonne de “il manifesto”: “Come si fa a proporsi come sindaco senza proporre un progetto adeguato ad una città come Torino? Il grande errore di Fassino (oltre a quello di aver imbarcato metà della destra cittadina e di non avere nemmeno uno degli “invisibili” nelle sue liste) è di essersi fatto ammaliare da Marchionne, di aver creduto alle magnifiche e progressive sorti del capitalismo, di non aver preparato una trasformazione autonoma della città. Il pensiero lungo, una consapevolezza alternativa, serve anche nelle elezioni amministrative. E naturalmente anche non sottomettersi alla deriva della politica nazionale.

In tasca – l’ho preso a casa fra i miei vecchi libri e me lo sono portato dietro in questo viaggio attraverso Torino 2016 – ho un libriccino edito nel 1969 della Feltrinelli: si chiama La FIAT è la nostra Università. Inchiesta fra i giovani lavoratori. Era stata condotta dai “gruppi fabbrica” di alcuni licei e facoltà torinesi, quasi cento pagine fitte di notizie. Alla risposta n.82 che dà l’operaio di terza categoria si legge: <>. Sarà antiquato, ma oggi il progetto appare anche più attuale. Non lo può accantonare neppure una campagna elettorale amministrativa, anche se non si potrà realizzarlo nei prossimi cinque anni. Ma se si perde l’orizzonte, anziché moderni si resta chiusi nella gabbia del medioevo. È questo – anche questa cosa oltre all’immediato – che fa la differenza di Torino in comune. E il suo candidato sindaco, Giorgio Airaudo, è il solo che sembra occuparsene. Non solo perché è più bravo, ma perché si è posto il problema di rappresentare quel pezzo grandissimo di società cui non basta essere fruitori di musei. La “buona politica” è, prima di tutto, rappresentanza. Da chi si rappresenta dipende l’aggettivo “di sinistra”.

Una città viva, aperta, multiculturale e multietnica, capace di valorizzare quartieri un tempo difficili come San Salvario e di trasformarli in dei piccoli gioielli di integrazione e convivenza civile, certo, ma anche una città fragile, con un sistema che a molti appare troppo bloccato, troppo escludente, troppo incentrato sulle fasce sociali più elevate, su chi abita in centro ed è avvezzo a frequentare concerti jazz o eventi culturali di prestigio: questa è la Torino che andrà al voto il prossimo 5 giugno. Perché Fassino non è stato un cattivo sindaco, ha investito sulla cultura e non si è discostato poi molto dall’operato delle giunte precedenti, Castellani e, soprattutto, Chiamparino; tuttavia, dopo oltre vent’anni di egemonia cittadina, il centrosinistra sembra non farcela più. I problemi a livello nazionale, la drastica rottura di SEL con il Partito Democratico, ormai alleato in pianta stabile (anche se non lo confessano apertamente) con Verdini, la candidatura di un sindacalista capace, concreto e rappresentativo come Airaudo (per giunta con una lista, Torino in Comune, che si ispira apertamente a Barcelona en Comú, ossia alla formazione civica che ha condotto Ada Colau alla guida della città simbolo della Catalogna), la rabbia dei quartieri popolari e periferici e delle storiche zone operaie, dove la disoccupazione morde e l’incertezza si fa sentire alla grande: sono solo alcuni degli agguerriti avversari con i quali dovrà fare i conti il sindaco uscente. Ed è una rabbia pesa e fa male e brucia e spinge verso l’estremismo, fortunatamente contenuto in parte proprio dalla candidatura di Airaudo, sufficientemente credibile per parlare al mondo degli ultimi e degli esclusi e per convogliarlo verso un sano voto operaista e di sinistra, e in parte dalla candidatura di una grillina atipica quale Chiara Appendino. E qui Fassino deve stare attento.

Deve stare attento perché la Appendino è una grillina veramente singolare, al punto che, intervistandola, ho avuto l’impressione (che non è certo un auspicio, sia chiaro) che potrebbe essere potenzialmente un altro Pizzarotti. La Appendino, per intenderci, non dichiarerebbe mai che sarebbe pronta a dimettersi se Grillo glielo chiedesse, non rivendicherebbe mai la scelta di far firmare contratti vincolanti ai candidati (anzi, ha rivendicato la piena autonomia del suo gruppo) e, di sicuro, non la sentirete mai lasciarsi andare a sparate o esagerazioni di qualsiasi tipo, anche perché viene da una famiglia imprenditoriale, ha studiato alla Bocconi e ha alle spalle una formazione culturale di tutto rispetto. Tutto questo non significa che sia meno convinta di altri suoi colleghi, anzi, forse lo è ancora di più, proprio come ho l’impressione che lo sia il povero Pizzarotti; fatto sta che non è tipa da indulgere all’estremismo, non è tipa da piazzate, non è tipa da strepiti insulsi mentre, al contrario, trasmette un rassicurante senso di concretezza e pragmatismo sabaudo, misto a una visione olivettiana che contempera sia lo sviluppo industriale sia la dignità della persona.

Se Fassino è il marchionnista, l’uomo del sì al referendum di Mirafiori del gennaio del 2011 e colui che per primo sdoganò, da segretario dei DS, il manager in maglione e Airaudo è la sinistra classica, operaia, attenta alle tutele e ai diritti dei lavoratori ma meno impegnata sul versante dello sviluppo economico (il che non significa che non se ne interessi, sia chiaro), la Appendino sembra la perfetta sintesi dei due, capace di tenere insieme due mondi che in una città come Torino non possono essere scissi.

Perché Torino è la capitale dell’industria, la città operaia per eccellenza, la scuola di dirigenti come Gramsci, Togliatti e Longo, la patria della sinistra liberale di Gobetti e Bobbio, la culla di quel crogiolo intellettuale che fu la casa editrice Einaudi dell’immediato dopoguerra, con i vari Primo Levi, Nuto Revelli e Raf Vallone, e, infine, è il luogo in cui, sportivamente parlando, si compì il miracolo del Grande Torino che, prima di infrangersi contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica di Superga, incarnò l’umiltà al potere, una sorta di classe operaia che va in Paradiso negli anni in cui il sindacato era rappresentato da dirigenti come Giuseppe Di Vittorio e l’universo delle tute blu aveva una rilevanza sociale mille volte superiore rispetto ad adesso.

E oggi che città è Torino? Come detto, è una città impoverita, con un tasso di disoccupazione dell’11,9 per cento, in linea con la media nazionale, e una disoccupazione giovanile al 44,9, addirittura al di sopra. È una città che non può più contare sull’effetto Olimpiadi e su quell’entusiasmo sano e genuino che io stesso ebbi modo di toccare con mano recandomi dieci anni fa alla Fiera del libro, come giovanissimo inviato della rivista studentesca “Zai.net”.

La Torino di allora era allegra, spensierata, orgogliosa di se stessa, felice di non essere più la città “a ovest di Milano” ma di poter dire che era Milano ad essere “a est di Torino”. Cinque anni di giunta Pisapia e il declino della classe operaia, aggravato dalla crisi e dal marchionnismo imperante in tutto il sistema industriale del nostro Paese, hanno fatto sì che il capoluogo piemontese smarrisse molte delle sue antiche certezze.

Basterà a Fassino un’onesta gestione dell’esistente, senza particolari guizzi, come del resto è nello stile del personaggio? O i torinesi preferiranno cambiare e affidarsi a una ragazza di valore, moderata e, al tempo stesso, capace di coltivare una radicalità che non scade mai nel radicalismo? E cosa faranno al ballottaggio i sostenitori di Airaudo? Preferiranno affidarsi all’usato sicuro fassiniano o si lasceranno travolgere, a loro volta, dal voto di curiosità che sembra animare una parte consistente dell’elettorato? Di tutte le Amministrative, quelle di Milano e di Torino sono senz’altro le più avvincenti: le prime perché ci dimostrano che, se si riunisce attorno a una figura presentabile e spendibile, il centrodestra esiste ancora ed è più che mai competitivo; le seconde perché ci dimostrano che lo stesso vale per il M5S, il quale, quando decide di far politica, la sa fare come pochi altri soggetti. Peccato che spesso, almeno questa è l’impressione che ricavano i maligni da tanti piccoli indizi disseminati lungo il cammino, peccato, dicevamo, che spesso non sembri averne voglia.

 

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