Sudan. Uccisioni e afollamenti di massa. La denuncia di Amnesty

Al termine di una ricerca basata su decine di interviste a vittime e a testimoni oculari di violazioni dei diritti umani, Amnesty International ha denunciato che tra gennaio e maggio del 2017 decine di migliaia di civili della regione sudsudanese dell’Alto Nilo sono stati costretti a lasciare le loro case, incendiate, bombardate e saccheggiate dalle forze governative.  

Civili appartenenti alla minoranza shilluk hanno raccontato ad Amnesty International di come, dopo gli attacchi, i soldati e i miliziani loro alleati rubassero ogni cosa: dalle scorte di cibo ai mobili e persino le porte delle case. Un capo villaggio ha descritto la distruzione come “essere stati sommersi da un’inondazione”.

“Pur avendo presente che la storia del Sud Sudan è segnata da ostilità tra le etnie, lo sfollamento di massa di quasi tutta la popolazione shilluk è un fatto veramente sconcertante”, ha dichiarato Joanne Mariner, alta consulente per le risposte alle crisi di Amnesty International.

“Intere zone del territorio degli shilluk sono state devastate; le loro case saccheggiate e poi date alle fiamme. Le prospettive di tornare indietro sono scarse, anche a causa della crescente crisi umanitaria nella regione e del timore di subire nuovamente violenza”, ha commentato Mariner.

L’offensiva lanciata dal governo all’inizio dell’anno nell’Alto Nilo, sostenuta da milizie di etnia dinka, ha permesso di riconquistare un territorio fino ad allora sotto il controllo di un gruppo armato di opposizione denominato Agwelek, composto da shilluk e diretto da Johnson Olony. Le operazioni dell’esercito hanno causato la fuga di decine di migliaia di civili shilluk, tra cui la pressoché totale popolazione di città e villaggi della riva occidentale del Nilo bianco.

Amnesty International ha raccolto immagini satellitari che mostrano la distruzione di case e altre strutture civili nel centro del villaggio di Wau Shilluk, tra cui un radd (tempio tradizionale). La maggior parte degli abitanti del territorio vive nei tukul, capanne col tetto di paglia facilmente infiammabili.

Tra fine maggio e inizio giugno, i ricercatori di Amnesty International nell’Alto Nilo hanno intervistato 79 vittime e testimoni in un campo per sfollati di Aburoc e in un sito per civili protetto dalle Nazioni Unite nella città di Malakal. Inoltre, hanno incontrato personale delle organizzazioni umanitarie, funzionari Onu, esponenti della società civile, oppositori e attivisti politici nelle due città così come nella capitale Juba.

Amnesty International ha potuto verificare che nel corso dell’offensiva sono stati uccisi numerosi civili, alcuni in modo chiaramente deliberato durante la prigionia o nel corso di un tentativo di fuga.

Le case sono state distrutte da colpi d’artiglieria, in un caso persino da una bomba sganciata da un aereo Antonov, o con incendi appiccati volontariamente. In alcuni casi, persone anziane o comunque non in grado di fuggire, sono arse vive all’interno delle loro abitazioni.

Anche se l’offensiva è terminata, la maggior parte degli shilluk non è tornata indietro. Decine di migliaia di loro sono andati a nord per diventare rifugiati in Sudan e circa 10.000 vivono in condizioni squallide nel campo di Aburoc, dove manca di tutto e vi sono casi di colera.

Situato in un fazzoletto di territorio controllato dalle forze Agwelek, alleate col Movimento di liberazione del popolo sudanese-all’opposizione (Spla-Io), il centro di Aburoc è presidiato da un piccolo contingente di soldati Onu. Data la scarsità d’acqua a disposizione, è inimmaginabile che possa costituire una soluzione di lungo periodo per grandi numeri di sfollati.

“Senza cibo e senza i loro averi, i civili shilluk hanno bisogno di aiuti umanitari per tornare a casa. Ma prima ancora, le forze di pace delle Nazioni Unite devono essere preparate e avere risorse sufficienti per assicurare la loro protezione”, ha dichiarato Donatella Rovera, alta consulente per le risposte alle crisi di Amnesty International.

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