Ecologia e lavoro come leva del cambiamento

L’idea che il lavoro e l’ambiente possa essere la leva su cui agire per costruire uno sviluppo equo, sostenibile e duraturo, stenta ad affermarsi nel nostro Paese.

Certo, non è assolutamente semplice e sottovaluta il problema chi pensa di risolverlo con sporadiche attenzioni alle tematiche ecologiche. Le vicende dell’ILVA, dell’Alcoa, di Piombino e tante altre ancora, sono soltanto la testimonianza più clamorosa che il conflitto ambiente/lavoro è ancora latente e pronto a riesplodere in particolare nei momenti di crisi, quando la disoccupazione morde e ogni opportunità diventa una via di uscita dalla precarietà e dalla miseria. Ma se proviamo ad andare più a fondo, ci rendiamo conto come il nostro sistema produttivo e dei consumi è una spaventosa macchina che produce quantità enormi di sprechi sociali ed economici ma anche ambientali. Si potrebbe facilmente dimostrare come una quota consistente del nostro debito pubblico viene alimentata da un crescente debito ambientale. Si pensi solo al rapporto tra inquinamento dell’aria delle nostre città, diffusione delle malattie respiratorie (in particolare tra bambini e anziani), spesa sanitaria. Debito ambientale che in una dimensione globale si prospetta in un prossimo futuro, secondo le valutazioni dell’ONU, tra le cause prime di conflitti e tragedie umanitarie.

Posto in questi termini il problema acquista tutto il suo spessore e ci mette di fronte al quesito di fondo: possiamo, può la sinistra riformista, non assumere con forte determinazione e in tutta la loro complessità, i principi dello sviluppo equo, sostenibile e duraturo come pilastri su cui ricostruire il nostro sistema produttivo e dei consumi?  Abbiamo altre scelte?

E’ su questo quesito che nel mondo del riformismo di sinistra bisogna fare il massimo di chiarezza superando ritardi culturali,  resistenze politiche e interessi opportunistici.  

Nel mondo si sta ridisegnando la geografia economica globale e l’Europa e l’Italia con essa, è attraversata da una crisi senza precedenti. Gli effetti sono devastanti e i segni, purtroppo, riempiono le cronache quotidiane. I livelli della disoccupazione continuano a salire in modo vertiginoso, in particolare quella giovanile e femminile. Che facciamo? Continuiamo a subire questa continua emorragia di lavoro? Pensiamo di arginarla con discutibili riforme del mercato del lavoro? Riteniamo che la risposta stia in incrementi di produttività ricavati nelle pieghe delle regole contrattuali? Pensiamo forse che superata la crisi tutto torni come prima? Francamente se cosi facessimo  credo proprio che non andremo molto lontano.

E’ quindi urgente recuperare il grave ritardo nella messa in campo di proposte di politiche industriali e dei consumi adeguate e coerenti ad avviare la transizione a uno sviluppo equo, sostenibile e duraturo. Porsi questo problema significa innanzitutto misurarsi con l’economia reale a partire dai caratteri del nostro sistema di produzione e dei consumi. Dobbiamo prendere atto che il nostro sistema produttivo e dei consumi, erede del boom economico degli anni ’50 e ’60, che consentì all’Italia di emergere come grande paese industriale, non è più adeguato a consentire al Paese quei livelli di ricchezza capaci di sostenere il nostro stato sociale. I margini di competitività di allora (bassi salari e bassi prezzi delle materie prime) oggi giocano a beneficio dei paesi emergenti. Anche la strada delle svalutazioni competitive, che consentì al Paese di navigare per decenni in acque tempestose prima dell’avvento dell’euro, oggi è preclusa, anche se c’è qualche incosciente che la accarezza.

E’ la ricerca della soluzione a questi problemi, certamente non i soli, che ci spingono o costringono, a fare la scelta della sostenibilità. Fortunatamente l’Italia e gli italiani, anche se privi di materie prime, sono depositari di una ricchezza culturale straordinaria e di un ambiente naturale tra i più belli. Tutto questo ha grandemente influito, per vie complesse, sulla qualità delle nostre produzioni e, quindi, sulla loro competitività. Oggi, quando le vecchie ricette non sono più utilizzabili, dobbiamo far tesoro dello straordinario know-how acquisito e del retaggio culturale su cui si fonda, per farne il carattere distintivo della nostra transizione.

Per questo però è essenziale un insieme di politiche industriali, della ricerca, della formazione, dei consumi, nazionali ed europee a favore della sostenibilità. Se vogliamo che il sistema manifatturiero continui a rappresentare il motore dello sviluppo economico italiano, allora occorre pensare a una sua evoluzione verso modelli di produzione sostenibile, imparando a coniugare la tradizionale forza della manifattura con lo sviluppo di nuovi servizi a essa collegati. Che questa sia la strada da percorrere  lo stanno a dimostrare le non poche realtà che hanno già fatto questa  scelta e che sono le uniche che stanno reagendo positivamente ai colpi della crisi.

Nel contempo, però, dobbiamo fare i conti con quella parte del nostro sistema produttivo in forte difficoltà, con punte di crisi gravissime, che stanno a testimoniare come la durezza della recessione stia mettendo in discussione interi pezzi del sistema produttivo nazionale. E’ in questo secondo scenario che sono presenti le principali insidie. Qui politiche industriali di sviluppo sostenibile significano prestare soprattutto una particolare attenzione per i lavoratori e le imprese che, colpiti e colpite dalla crisi, hanno bisogno per affrontare la transizione, di certezze, garanzie economiche e finanziarie, tempo e sostegno per la formazione professionale e la riqualificazione aziendale.

Si pone, in particolare, la necessità di un rinnovato ruolo di pubblico. Innovato nelle politiche, nell’individuazione di grandi obiettivi,  nella predisposizione di strumenti e regole e, soprattutto nel coinvolgimento di quella pluralità di soggetti, non solo istituzionali, che possono e vogliono convergere su obiettivi comuni, che non vanno in ordine sparso, ma agendo in coesione e solidarietà fanno sistema nel territorio e nel Paese.

Si tratta, in sintesi, di avviare una progressiva ma profonda trasformazione dei segmenti più maturi e pesanti del nostro sistema produttivo, a partire da quelli più esposti. Per questo sono indispensabili politiche a favore del lavoro e delle imprese con incentivi, fiscalità, semplificazioni, in grado di attivare una nuova domanda interna e un’alta capacità competitiva dell’impresa italiana basata sulla qualità dei prodotti, della ricerca e dei cicli produttivi. In questo impegno l’istruzione, la formazione, la ricerca, l’innovazione, la sperimentazione rappresentano le priorità delle politiche pubbliche indispensabili per il nostro futuro. In particolare la transizione richiede di mettere mano a un vasto programma formativo, che deve assumere nel tempo carattere permanente, per consentire ai lavoratori di non essere “superati” dall’avanzamento del processo innovativo che coinvolgerà necessariamente tutti i settori produttivi.

Tutto questo mi porta a dire che la sfida che abbiamo di fronte e di dimensioni tali che non è pensabile affrontarla fuori da una volontà politica capace di fare del mondo del lavoro il protagonista della transizione. A questo non c’è alternativa vista la mole di contraddizioni, di resistenze lobbistiche e clientelari di cui è costellato il  percorso. Solo sulla base di strategie politiche chiare e lungimiranti e un coinvolgimento serio, da protagonista, del mondo del lavoro sarà possibile garantire quel livello di equità essenziale per sostenere con il consenso democratico e popolare un processo complesso e in alcuni casi sicuramente doloroso. D’altra parte nel nostro Paese il mondo del lavoro è sempre stato protagonista dei grandi cambiamenti. Non c’è dubbio che anche in questa circostanza il suo impegno non mancherà. C’è bisogno, però, di un salto di qualità del progetto politico della sinistra riformista.

 

Purtroppo dal dibattito che si sta svolgendo nel Partito Democratico viene spontaneo domandarsi: ma come mai per la sinistra riformista, salvo alcune eccezioni, è così difficile  parlare di ecologia e cioè di uno sviluppo fondato sull’uso equo e sostenibile delle risorse naturali, a partire dal lavoro?

La cosa è ben strana. La questione ecologica, dall’ormai mitico rapporto del MIT  “I limiti dello sviluppo” promosso dal Club di Roma, è al centro dell’attenzione delle più importanti istituzioni internazionali e centri scientifici più prestigiosi. E’ questione nodale dei più complessi problemi  dalla cui soluzione dipenderà la sorte stessa del genere umano. L’uso indiscriminato delle risorse naturali è stato uno dei terreni privilegiati delle pratiche neoliberiste, causa di scontri diplomatici e armati pressoché in tutte le realtà del mondo. Il mercato finanziario, lucrando sui differenziali di sviluppo delle diverse realtà del pianeta e sullo sfruttamento delle risorse naturali, a partire da quelle energetiche e alimentari, ha lucrato spaventosi profitti destabilizzando profondamente l’economia globale, in particolare quella europea. La diffusione dei processi di sviluppo nei paesi una volta sottosviluppati, la crescente domanda di beni e servizi, il contrasto al cambiamento climatico costituiscono i termini di un’unica difficile equazione che potrà essere risolta solo  dalla capacità di rendere equo ed ecologicamente sostenibile il processo di globalizzazione.

In estrema sintesi si può affermare come la questione ecologica insieme alla questione sociale, con essa strettamente connessa, è la più grande, moderna contraddizione con cui la sinistra riformista è chiamata a confrontarsi.

Ebbene, nel dibattito politico della sinistra riformista italiana si ha sempre l’impressione che le questioni ecologiche vengano considerate, tutto sommato questioni marginali, cose da associazioni ambientaliste e, in quanto tali, non degne di essere prese in considerazione dalla “politica”. La cultura politica riformista, capace di  analisi politiche raffinatissime su economia, fisco, welfare, lavoro, alle questioni ecologiche  al massimo riesce  a dedicare qualche cenno di circostanza. Una sorta di rinuncia a comprendere da cui deriva, al dunque, l’incapacità  di rileggere quelle connessioni  profonde che legano la questione ecologica alle altre questioni politiche considerate politicamente  preminenti, a tutti i livelli. Un caso clamoroso di questa incapacità è l’accantonamento nel 2006 della Strategia europea per lo sviluppo sostenibile, nella totale sottovalutazione delle forze politiche riformiste italiane ed europee, a favore di Lisbona 2020 anticamera della stagione dei pareggi di bilancio a senso unico e delle tragedie sociali che hanno determinato, a partire dalla Grecia.

L’unico momento in cui nel nostro Paese si accende l’attenzione alle questioni ambientali  è  a fronte della ennesima tragedia o emergenza ambientale. Attenzione che però viene meno appena si spengono i riflettori e senza nessuna capacità di risposte riformiste vere e durature. La riprova sta nella permanente emergenza ambientale in cui intere regioni vivono da decenni malgrado siano state governate a lungo anche da amministrazioni di sinistra. 

E’ come se la cultura politica riformista considerasse l’impegno sulle questioni ecologiche ininfluente sugli orientamenti culturali e politici degli italiani e, al dunque, elettorali. In effetti, è pur vero che nel nostro Paese, a differenza ad esempio di Francia e Germania,  non si è mai affermato, ad eccezione della parabola dei Verdi, un partito politico di profonda ispirazione ecologista, malgrado il ricchissimo numero di organizzazioni i verdi. Ma è altresì vero, come dimostrano le indagini multiscopo dell’ISTAT e le elaborazioni ISPRA, che sulle tematiche ambientali, in particolare sulla sicurezza ambientale, c’è una grande e costante attenzione dei cittadini. E d’altra parte non è forse questa sensibilità delle comunità locali alla base di quei conflitti ambientali (ben 354 nel 2012 e aumentati, malgrado la crisi, del +7% rispetto al 2011) che interessano una pluralità vastissima di situazioni (centrali d’energia di vario tipo, termovalorizzatori,  discariche, rigasificatori, infrastrutture stradali, infrastrutture ferroviarie).

Questa sottovalutazione ha veramente del paradossale e non finisce mai di stupire e indignare. Si pensi allo straordinario risultato dei referendum sull’acqua e sull’energia nucleare. Come non vedere, anche se con ritardo, che quel risultato interrogava e interroga, la cultura riformista sul destino dei  beni comuni. E trovare risposte a questo interrogativo  non dovrebbe essere il terreno di impegno privilegiato di una sinistra  riformista? Ebbene ad oggi la risposta è stata la rimozione di fatto del problema. Come meravigliarsi, al dunque, della pesante penalizzazione della coalizione di centro sinistra alle recenti elezioni politiche.

Riconoscere, allora, che per la sinistra riformista italiana si pone l’esigenza e l’urgenza di recuperare un grave ritardo culturale e politico sulla questione ecologica è un primo passo indispensabile se abbiamo a cuore un riformismo all’altezza dei problemi che il Paese e non solo, ha di fronte. Non si tratta di interrogarsi su astratti paradigmi su cui rifondare lo sviluppo. Si tratta invece, come si è detto, di governare un complesso processo di transizione  che porti il nostro sistema produttivo e dei consumi ad essere equo e sostenibile collocandolo nell’alveo delle più avanzate esperienze internazionali. 

 

E’ del tutto evidente però che anche la cultura del mondo dell’ecologismo deve fare dei passi avanti. Nei giorni scorsi è stato costituito un nuovo soggetto politico ecologista. Le ragioni addotte  fondamentalmente sono riconducibili alla poca attenzione della “politica” ai temi ecologisti e segnatamente del Partito Democratico, considerato comunque l’interlocutore di riferimento. La cosa, come ho detto, è indiscutibilmente vera. Non credo però che la risposta stia nel  dare vita ad un nuovo soggetto politico ecologista. Così facendo si ripercorrono sentieri già attraversati che, al dunque, hanno portato solo a disperdere tante attese e speranze.

Io ritengo che la mancata penetrazione dell’ecologismo nella cultura politica riformista del  Paese sia dipesa dalla incapacità di noi ecologisti di dare spessore politico alle nostre proposte e di aggregare su di esse consenso politico. Abbiamo pensato, cioè, che l’azione pedagogica, teorica e pratica, fondata sulla solida base scientifica delle nostre proposte programmatiche,  fosse sufficiente a sconfiggere interessi consolidati e tenacemente radicati in un modello economico e sociale incardinato sul consumismo: rileggere oggi Pasolini può essere di qualche insegnamento anche da questo punto di vista. La stessa nostra analisi della cultura neoliberista e delle sue conseguenze è stata straordinariamente approssimativa e, in alcuni casi, anche subalterna pensando che il mercato, al dunque, avrebbe riconosciuto il “valore” della componente ecologica nelle merci. Penso inoltre che il limite più grave sia stata la sottovalutazione della dimensione sociale della sostenibilità. Se andiamo a ben vedere l’ecologismo italiano non si è mai fatto carico delle conseguenze sul mondo del lavoro delle proposte che via via avanzava. L’errore è stato non aver assunto come propria la contraddizione ambiente/lavoro e, quindi, non  aver compreso che una conversione ecologica del sistema produttivo richiede una transizione che si può realizzare solo conquistando il consenso di quei lavoratori che per primi corrono il rischio di pagarne le conseguenze.

Ed allora, se questi sono i problemi, oggi l’impegno di un ecologismo riformista militante deve dimostrarsi capace di far vivere nel dibattito politico un progetto generale di trasformazione a partire da una propria lettura di quanto sta avvenendo nel Paese, in Europa e nel mondo. Ad esempio cominciando con il riconoscere in modo chiaro e netto le enormi responsabilità del neoliberismo. Che se vogliamo mantenere i nostri attuali standard di vita ed estenderli ai popoli che ne sono privi, è necessario un profondo cambiamento, altrimenti le conseguenze sull’ambiente saranno devastanti. Che in gioco è la ripartizione mondiale della ricchezza e che se l’Europa non trova la forza di svolgere un ruolo da protagonista (cosa possibile solo con gli Stati Uniti d’Europa) sarà costretta a ridurre progressivamente il suo livello di benessere (cosa che già sta avvenendo).  Che questo significa parlare di come si avvia e si governa uno “sviluppo” fondato su un nuovo paradigma che in estrema sintesi si potrebbe dire “di più e meglio con meno. Che è necessario affermare la garanzia pubblica sui “beni comuni”. Che il mondo del lavoro va reso protagonista della transizione. Che va affermato con forza il  ruolo sociale dell’impresa (l’impresa come bene collettivo) come previsto dalla nostra Costituzione. Che è necessario intervenire sui freni che l’attuale sistema di relazioni industriali (nazionale e internazionale) pone alla transizione alla sostenibilità.

Come si vede un insieme di temi di grandissima attualità e che solo apparentemente non hanno nulla dell’ecologismo tradizionale. Non si parla di acqua e di rifiuti, non si parla di biodiversità o energia, non si parla di parchi o di cambiamento climatico. Si parla però di riforme graduali, ma radicali, di come trasformare il nostro sistema economico, sociale, istituzionale e democratico per renderlo capace di produrre e sostenere una transizione alla  sostenibilità da far vivere nell’attuale stagione. Come detto, tutto questo è assente dal dibattito politico, ma la cosa più grave è che è assente nel dibattito degli ecologisti. Porlo all’attenzione del Paese è dunque una nostra precisa responsabilità e, se non vogliamo perdere un’altra occasione, questa dovrà essere la linea politica su cui attestare il movimento ecologista riformista, tutto il resto sono “pensierini ambientalisti” incapaci di incidere sugli interessi in campo. 

Più in generale, infine, credo che la cultura ecologista debba entrare con forza nel dibattito delle riforme istituzionali e non subirlo a ricaduta. La questione che dobbiamo porre con forza, avanzando le necessarie proposte, è di come dare sostanza al rapporto di coerenza tra democrazia e sostenibilità e conseguentemente, delle istituzioni per la sostenibilità come frutto di un moderno “patto sociale”. Non dimentichiamo che lo stato sociale socialdemocratico fu realizzato sulla base di un patto sociale tra capitale e lavoro per la creazione di un sistema democratico e istituzionale coerente con le sue finalità.  Se allora il problema era la ripartizione della ricchezza anche a favore del lavoro, oggi il problema si pone sicuramente in termini più complessi. La cosa certa è che la transizione alla sostenibilità non chiama in causa solo la qualità dei processi produttivi in rapporto alle risorse naturali. La transizione richiede di tener conto della natura del conflitto ambientale (il destino dei beni comuni non è sempre negoziabile) e quindi, come è emerso in modo netto nella conferenza di Rio+20, di una profonda riforma dei modelli decisionali in funzione di una maggiore trasparenza e democrazia. Questo significa che nel dibattito sulle riforme istituzionali devono entrare a pieno titolo i temi della “democrazia deliberativa”, dei “referendum propositivi”, dei “consigli per la sostenibilità”, dei “bilanci di sostenibilità”, delle “leggi di iniziativa popolare”,  dei “rappresentanti per la sostenibilità” nei luoghi di lavoro, del “ruolo sociale dell’impresa”, della “gestione sociale dei beni comuni”. Tutti obiettivi programmatici di una moderna cultura ecologista riformista per aprire nel Paese nuovi spazi di democrazia.

 

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