Le grand Ghettò e i villaggi migranti a cielo aperto

ROMA – L’autunno è alle porte e i ragazzi iniziano a rientrare nelle grandi città. Vi si riaffacciano per lo meno. Erano scomparsi, nascosti lì dove nessuno può vederli.

Dove a tutti fa comodo non guardare. Quest’anno però qualcosa di diverso è in atto. Quello che prima era un casolare occupato è diventata una comune, quello che era un campo stagionale avrà un presidio tutto l’anno. Quella che era una soluzione sporadica diventa un modello. La casa di cartone è stata rafforzata dalla plastica, dal legno. Il ghetto è diventato Grand Ghettò.  Si cercano campagne subito vicino la città. Si pensa alla vita da pendolare e non a quella da senza tetto alla stazione Termini. Si riconsidera la possibilità di esistenza in Italia. Dall’idea di soffrire per accedere al consumismo si sta maturando l’ipotesi di resistere adoperando i mezzi dell’adattamento. C’è molta tristezza, tanta nostalgia. C’è un po’ d’Africa anche in Italia. Questa volta hanno la testa alta, si presentano in Questura, chiedono informazioni sui loro documenti, aspettano la data della Commissione o magari l’esito e poi: “Se andasse male me ne andrei, se andasse bene investirei su me stesso, mi fermerei in città. Ma so che mi verrà detto che dovrò aspettare ancora”. E così migliaia di persone, sorprendentemente non clandestini, ma regolari – richiedenti asilo in attesa di essere giudicati, ricorsisti o possessori di protezione umanitaria in attesa di un rinnovo – sono chiamati a vivere nella precarietà più assoluta. Molti di loro tentano di chiedere un posto dove dormire, ma l’ufficio immigrazione gli risponde che la lista è lunga, che dovranno aspettare dai due ai tre mesi. Il lavoro scarseggia e certi contratti la legge vuole che non possano nemmeno essergli somministrati. Allora? “Torno in campagna, ci sono le olive, l’uva. Lì ho costruito una casa. E’ mia, nessuno me la tocca”. Un’abitazione senza fondamenta, senza cemento, tradizionale, fatta di spazzatura reciclata. Si dorme su materassi vecchi, buttati per terra. Baracche, una di fronte all’altra. Decine, quest’anno hanno ospitato trecento persone.

Un villaggio. “E’ tutto quello che siamo riusciti a fare. E’ il nostro modo per non darvi fastidio, per non chiedere niente a nessuno. Per non intasare le vostre strutture, per non fare l’elemosina. Forse non è bello, ma è decoroso. Raccoglie le nostre dignità, raccoglie le nostre storie. Ci si ripara dal freddo e in qualche modo ci si aiuta”. Ciò accade dietro casa nostra, quella casa che teniamo chiusa, che sentiamo irresponsabile delle crisi altrui. Accade nelle terre da cui provengoni i nostri bei pomodorini, Pachino, Datterini, oppure i pomodoroni per l’insalata, quelli tondi oppure a cuore. Accade dove qualche ombra passa e raccoglie piegandosi sulla schiena i frutti dei nostri sughetti, casse di San Marzano per le nostre paste asciutte. Succede anche dove con raffinatezza, a volte industriale, a volte psuedoartigianale viene creato il nostro vino, il frizzante lambrusco, tutti gli spumeggianti veneti, concorrenti delle bollicine francesi. E poi il Cirò, l’Aglianico, il Primitivo. I bianchi campani e i castellani laziali. Succede, punto e basta. E per ogni essere che entra in un supermercato a prendere l’olio d’oliva ce ne è un altro che ad una ad una quelle olive le raccoglie. E se qualcuno, sempre meno, cerca la qualità non badando al prezzo, qualche d’un altro si vende al lavoro senza contratto, accettando il ribasso. Sfumature d’esistenza. E loro lì nei loro posti di appoggio hanno dato forma alle loro soluzioni abitative. Dal niente hanno sommato le loro povertà. Rignano è l’esempio più evidente: “La vita nel ghetto è lenta, un giorno si lavora, due no. Quando si è scelti, lo si sa la notte prima. La mattina presto, alle quattro, massimo alle cinque, si parte e poi si rientra la sera, verso le 19.00. Si cucina su dei piccoli falò, organizzati a terra o su dei barili. Alcuni hanno il fornelletto da campo, con la bombola del gas. Non ci fanno molto però.

Succede spesso che ci si ritrova in dieci, a volte in venti attorno ad un fuoco. Alcuni comprano dei panini, glieli fornisce la persona che ci sceglie per lavorare oppure vanno in locanda. Ci sono dei piccoli ristorantini, anche dei bar. Alcuni sono gestiti da italiani. E’ un villaggio, un villaggio vero e proprio. Io di solito raccolgo dei soldi con gli amici e compro due o tre galline. Gli tiriamo il collo e glielo tagliamo. Le mettiamo nell’acqua bollente, poi le spenniamo e finiamo di cuocerle. Arrosto o in brodo, come ci va. Poi giochiamo a carte, a trentuno, senza soldi e ascoltiamo un po’ di musica africana”. Il caporalato, anche quello è cambiato. I pagamenti sono dilazionati nel tempo, per i poveri Cristi, ma anche per i loro talent scout. L’x factor è il comportamento corretto ovvero la propensione a non creare storie, a saper aspettare il proprio turno, la pazienza per il pagamento e l’omertà sul posto dove ci si reca. I braccianti non hanno mai contatti diretti col loro padrone. Il caporale è uno straniero come loro. E’ lui a metterci la faccia, è lui il possibile responsabile dello sfruttamento in caso di retata della polizia o della guardia di finanza. Ha una quota sulla loro giornata, si fa pagare il passaggio in macchina verso la terra, a volte a più di cento chilometri di distanza. E’ lui che custodisce il ghetto anche d’inverno. Il più delle volte lavora in grigio, non in nero. Ha uno pseudocontratto. Affitta le camere a venti euro a stagione, si relaziona con gli indigeni. “Il rapporto è 1 a 30, ogni trenta ragazzi, uno è un caporale. Sta lì da più tempo. Alcuni sono tunisini, arabi e di questi però, qualcuno non vive nel Ghetto, viene da fuori. Sa che lì trova gente che può pagare di meno.  Di solito per primi si chiamano a lavorare i connazionali, gli amici. Poi però intervengono dinamiche strane. Nessuno le contesta, perché sappiamo che quel lavoro è un lavoro sporco, molto rischioso.

Prendono un sesto dei nostri guadagni, ma rischiano più di ognuno di noi. E’ un sistema. Quando abbiamo saputo della sanatoria, in un primo momento avevamo pensato fosse una cosa positiva, poi ci siamo resi conto che noi le uniche persone che potremmo denunciare sono questi fratelli”. A Rignano si parte ogni mattina per raggiungere l’agrofoggiano, ma anche per la Campania e a volte per la Calabria. Non c’è la corrente elettrica. “Quest’anno è arrivata l’acqua potabile e sembra che resterà anche per l’inverno. Abbiamo dei bagni chimici e siamo riusciti a costruire delle docce, abbiamo montato delle tende e abbiamo fatto delle canaline per smaltire l’acqua”. Ci sono anche le donne, per lo più nigeriane e camerunensi. “Noi tutt’al più le guardiamo, ogni comunità ha le sue abitudine. Noi siamo djoula, le nostre donne si occupano della casa, dei bambini, della cucina”. Le ragazze nigeriane invece sono impegnate nel commercio sessuale. L’economia del villaggio le costringe a vendere il proprio corpo ad un quinto dei costi chiesti sulle strade metropolitane. “Sono nel ghetto per scelta. Sono in proprio, sono più libere. E’ come se stessero con i propri uomini. Nel ghetto ci sono momenti in cui si sta insieme, perché siamo tutti nella stessa condizione ed altri in cui si è divisi. Nigeriani con nigeriani, djoula con djoula. Senegalesi con senegalesi. Arabi con arabi. Rumeni con rumeni. Noi siamo nuovi lì, non ci stiamo bene. Alcuni di noi lavoravano in fabbrica, altri sono stati ospiti di centri d’accoglienza o di case-famiglia. Tutti abbiamo sentito da qualche parte il calore di una famiglia. Siamo capitati nel ghetto per disperazione, ci siamo tornati una seconda volta dicendo: questa è l’ultima volta. Ora è diventato a nostro malincuore, un rifugio. Restamo nell’ombra, non diamo fastidio e non dobbiamo ringraziare nessuno”.     

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