Rifugiato nello stato di malato

Nomoko oggi è triste. Va e viene dal dottore. Non accetta diagnosi leggere. Afferma con gli occhi rossi e tanta rabbia di essere malato. Minaccia di portare la guerra dentro al Centro, dà una spinta a un’operatrice, manda a quel paese i suoi compagni e si va a chiudere nella sua stanza…

Nomoko è tanto intelligente quanto sensibile e delicato. Tanto Forte quanto debole. Ha voglia di fidarsi di qualcuno e una paura così grande che gli impedisce di farlo. Una paura che lo isola, lo disillude di ogni momento di gioia. Questo spiega il perché passa dallo stare bene con gli altri al negarsi agli altri, dal voler condividere sorrisi con gli operatori al cercare lo scontro con loro. Afferma di non avere una famiglia e di essere convinto di non poterla avere nemmeno in futuro. Ha paura di morire, lo ripete sempre, e dice anche di avere paura di non essere mai esistito. Chiede: “Chi si ricorderà di me? Chi si interesserà di quello che ho vissuto?”. Sente sulla sua pelle un peso di cui non riesce a disfarsi, a differenza di altri ragazzi non riesce a liberarsi del suo passato. Questa condizione gli toglie lucidità, speranze, ma al contempo è una condizione plausibile per quella che è la sua storia, per il passaggio che sta compiendo. Dice di aver vissuto degli anni in Libia e che questo è il suo primo viaggio in Europa. L’impatto con una cultura diversa lo sta travolgendo. La sua intelligenza, sopra la media, può trarre in inganno, probabilmente non è così uomo di mondo come sembra. O meglio lo è perché ha sofferto molto, ha preso bastonate e ha visto la violenza. L’ha vista vicino. Molto vicino. Non ha confidenza però con ospedali, dottori e Cpa. Non ha più confidenza con le cose belle del mondo, primo tra tutti il relazionarsi con l’altro per incontrarlo, conoscerlo, conquistarlo come amico. Qui Nomoko è chiamato a fare il salto, a riscoprire se stesso, a tirar fuori il coraggio, a costruire un ponte verso il mondo esterno.

A riprendere a credere nella sua vita. Lo abbiamo visto buttarsi dalla finestra, lo abbiamo visto sindacare sul cibo, sulle prescrizioni dei dottori, ma lo abbiamo visto anche scherzare con gli altri. Preparare il tè per loro, giocarci a pallone, invitarli a cantare le canzoni del Mali davanti a Youtube. Il blocco è sempre dietro l’angolo, Nomoko si è imposto che più di tanto lui non può stare bene e allora si ritira indietro. Lo ha fatto con alcuni operatori, lo ha fatto con i suoi compagni, probabilmente lo ha fatto anche con alcune terapie. Possiamo chiederci quanto sia pericoloso averlo in struttura, ma non credo sia poi così interessante. Almeno per me. Possiamo chiederci perché lo fa e cosa possiamo fare noi. Lo fa perché c’è qualcosa del suo passato che è ancora presente, che deve riuscire a riavvolgere. Per farlo deve forse rielaborarlo oppure metterlo via, per sempre, quasi annullarlo. Probabilmente è qualcosa di veramente brutto, ma che ha a che fare con la sua identità, con la sua famiglia, con la sua essenza. Non ne ho idea. Probabilmente ha bisogno di un supporto psicologico, forse di una terapia psicologica (secondo me non psichiatrica) con il supporto e la presenza del mediatore interculturale.

Noi, noi operatori cosa possiamo fare? Io credo che il nostro lavoro ci chiami sempre a tendere la nostra mano. Una mano che non stringe l’altro, non lo afferra, se questo non vuole. Una mano tesa, sempre, costantemente, pazientemente. Come a dire io sono qui, sono qui con te. Se tu vuoi mi puoi abbracciare. Fidati di me. Ti posso ascoltare, mi puoi parlare. Mi soffermo infine sugli atti più dolorosi di questa vicenda. Nomoko che va alla polizia e denuncia il Centro di non curarlo, Namako che spinge un’operatrice, Nomoko che dice bugie. Sono le sue debolezze, i suoi cortocircuiti. Cortocircuiti d’amore, di speranza, di fiducia. Nomoko sa di sbagliare, è per questo che poi nega, che poi confonde la realtà con i suoi pensieri, che si chiude in uno condizione che per lo meno gli dà delle giustificazioni. Si è rifugiato nello stato di malato. E facciamoci caso, non è codardia, è un atto di rassegnazione durante il quale non condanna gli altri, ma si auto-punisce. Ha sofferto per colpe altrui e si convince di soffrire per qualcosa che è dentro di sé (un’infezione, una calcificazione o che ne so). Se rimprovera noi perché non guarisce, non ci sta realmente giudicando, forse è uno strano balbettio di richiesta d’aiuto. Forse è solo paura. Paura di morire? No, di restare solo. Di restare solo. Molti dicono che sia pazzo. Io continuo a credere che non lo sia. E che è nostro dovere continuare a tenergli tesa la mano. Non saremo psicologi, non saremo degli amici, ma siamo degli incontri. Solo il terreno della relazione umana permette di creare nuovi segni e di rileggere le tracce del proprio passato.

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