“L’amico di pelle bianca”

ROMA – Nel Sud del Sudan, dove finisce il Darfur e continuano i problemi. Una famiglia, un padre sindacalista, una madre cristiana e due piccole creature.

Essere cristiani da queste parti è molto pericoloso, una minoranza nelle minoranze e una guerra da cui è obbligatorio sottrarsi. Allora via alla ricerca dei propri nonni, in  Mali.  Una nuova vita quando la vita non l’hai ancora iniziata a considerare tale, dai 2 ai 15 anni, a scuola, poi a casa. Una casa fatta di pareti di terra e di tetti ricoperti di fogliame, poi un’altra persecuzione. Papà dà fastidio, mette la politica davanti a tutto, la comunità lo guarda male, il suo datore di lavoro lo addita come un nemico pubblico. La sua colpa, aver difeso i diritti degli operai di una fabbrica. E’ caccia all’uomo. E di notte, quando le strade sterrate hanno la polvere a terra e gli animali circolano liberi nei campi, un grosso fuoco si accende nella loro casa. E il ragazzino Jossa dice addio al suo papà.  

La mamma raccoglie le poche cose rimaste, prende per mano la figlia e si incammina verso un altro mondo, sconosciuto a Jossa. Per lui queste parole: “Tu scappa, ce la puoi fare”. Sudan, Mali e poi una corsa verso la speranza, ma con gli occhi sempre rivolti ad un passato indimenticabile, fatto di strappi e di graffi non rimarginabili.

Da un villaggio all’altro, con l’adolescenza spezzata e gli studi interrotti. Da un appezzamento di terra all’altro, fino a raggiungere quei soldi per affrontare il viaggio verso la Libia. Altri due anni e poi al confine. C’è un mare da superare, e poi l’Italia. Camminare significa tenere gli occhi aperti e guardare significa diffidare. Per Jossa l’imperativo è sopravvivere. Ha con sé il disincanto dell’incontro. Dietro l’angolo ha visto solo mercenari e lui ha capito che in questo gioco è meglio essere coscienti di avere un prezzo molto basso. Per salire su un barcone ha tirato la corda, ha cercato di vendere la sua carne al costo di uno scatolone di ortaggi. Sa che la libertà non si compra e che quel viaggio è solo una bolla. Arrivato a Lampedusa è scoppiata, come sempre finora.  

I racconti altrui di un paese democratico sono evaporati nel primo centro di accoglienza, nell’ “esodo forzato” in un altro centro, in Puglia e allora ancora via. Si fugge, verso Roma. Via da un contenitore, via dallo stand by e via dal confronto forzato con tante altre anime con storie difficili, ma diverse dalle sue. Crede in Dio, un Dio che per lui non ha differenze con il nostro Dio, ma non ne ha nemmeno con quello arabo e con quello africano.  Nascosto nella toilette di un intercity, tra le lamentele di una signora e i sorrisi dei ragazzi, ce la fa, arriva alle porte della capitale. Termini e la nostalgia del non avere radici lo fanno muovere come biglia impazzita, gli occhi iniziano a captare differenze, incrociano paesaggi antichi e post moderni. Bianchi ovunque e Neri sui marciapiedi o con tante borse al collo a cercare di mettere in tasca qualche quattrino. Lui parla francese e lo fa con raffinatezza, sa che oltre questo scenario non può andare, non può capire. Ferma un poliziotto e: “Je suis Jossa, je n’ais confiance en personne”.  

Ora ha 17 anni ed è un richiedente asilo, in attesa della commissione. E’ in un centro per minori, sta frequentando la terza media. Passa il suo tempo libero nelle biblioteche alla ricerca di poeti africani. Legge Il Manifesto e si preoccupa per l’Italia. Si dice comunista, non ama il calcio e nei momenti sì cita Verlaine. Conosce tutti i percorsi degli autobus,  cede il posto ai signori anziani, dà del lei alle sue coetanee, arrossisce se sente delle parolacce in romanesco. Si diletta nel risolvere le equazioni di secondo grado o nel trasformare cifre astronomiche in codice binario. Ha tutto per vivere il nostro Paese, per ravvivare il nostro Paese, per costruirsi finalmente una vita che sa di vita nel nostro Paese. Ma fino a ieri non aveva “confiance en personne”.

Nonostante tutti lo stimino, tutti lo apprezzino, africani e non, lui si trattiene, non li reputa amici. Per lui la fiducia e l’amicizia sono delle radici, forse dei rizomi, forse delle ancore. Finora ha schivato gli ostacoli trasportato dal vento, ma una casa, una casa richiede la sicurezza dello stare fermi. Del sentirsi a proprio agio. Occorre vedere oltre, sperando, oltre che diffidando. Occorre vedere indietro rafforzandosi, oltre che soffrendo. Nei sei mesi a Roma ha sfatato le remore sul razzismo. Quando era arrivato, diceva che in occidente tutti non sono razzisti a parole, ma lo sono nei comportamenti.

E’ entrato in punta di piedi nella nostra cultura e vi ha trovato un posto d’onore, innamorandosi delle nostre poesie e del nostro calore sentimentale. Ha iniziato a farsi ascoltare e a dialogare anche con chi inizialmente lo stigmatizzava come clandestino. Quelle otto righe scritte in italiano perfetto, senza correzioni della professoressa, sventolate al vento e mostratemi con orgoglio segnano un passo. C’era scritto: “Ho un amico (di pelle bianca), ha il naso lungo e un sorriso affascinante. E’ come un padre per me, è sempre disponibile e si preoccupa quando torno tardi a casa. Con lui posso parlare di ogni cosa e se la pensiamo diversamente non si arrabbia, mi spiega perché la pensa diversamente da me e poi mi ascolta. Mi fido di lui perché lui si fida di me (…)” Sono rimasto senza parole, ma non avevo paura di deluderlo, perché lui mi ha detto, per la prima volta: “potevo scrivere di altri ragazzi di colore, che in questi mesi mi hanno dimostrato di essere miei amici, ma ho voluto scrivere di te, perché mi hai fatto capire che senza relazioni non ce la posso fare. Che se mi ritroverò solo, potrò riprendere a vivere soltanto incontrandomi con qualcun altro”. Al compimento dei 18 anni Jossa lascerà il mio centro, esploderà l’ennesima bolla, affronterà una commissione che deciderà del suo futuro. Lui, la burocrazia, la città selvaggia. Ancora una volta solo, ma non più solo, Jossa ce la farà.

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