Mamma disoccupata. Per l’Inps lavoratrici “scoraggiate”

ROMA – Il termine lo ha inventato l’Istat. Le “lavoratrici scoraggiate” sono le donne inattive, quelle che hanno smesso di cercare lavoro, perché si sono stancate di lanciare sassi nel vuoto. L’ultima istantanea l’Istituto di Ricerca ce l’ha offerta qualche giorno fa: nel mese di febbraio quasi 50.000 donne sono diventate inattive per scoraggiamento. 

Smettere di cercare lavoro significa lasciare da parte anche la speranza di un futuro migliore, significa essere tagliate completamente fuori dalla socialità e dalla vita che non sia quella strettamente famigliare. E soprattutto, non raggiungere mai un’indipendenza economica, non avere una pensione, e in caso di separazione essere donne potenzialmente molto vulnerabili. 

Paradossalmente (ma neanche troppo) più cresce il numero delle lavoratrici scoraggiate, più si abbassano gli indici di disoccupazione: per le statistiche o sei una cosa o sei l’altra. Quindi, lo abbiamo capito, non è la disoccupazione ad assottigliarsi ma la speranza. 

Solo che questo l’Istat ce lo dice da anni. Almeno dieci. 

Ne parlai la prima volta a dicembre 2009, a Nuoro, a un convegno organizzato dalla Consigliera di Parità. Mio figlio aveva pochi mesi, mi tirai il latte all’alba e presi due aerei in giornata, andata e ritorno. Tema conciliazione, asili nido, le cose che conosciamo insomma. 

Oggi che mio figlio ha sette anni e sta per finire la prima elementare, di nuovo leggo sul Corriere della Sera a firma del professor Ferrera dell’estrema necessità che questo paese ha di un’agenda di governo per il lavoro femminile, perché 2,3 milioni sono “le donne che restano intrappolate nella famiglia”. 

Quindi ora il problema è arrivato sotto gli occhi dei sociologi. Che, poiché come i politici stanno rinchiusi dentro stanze o aule, poco sanno davvero del paese (reale) delle donne.

Perché, vi dirò, nel frattempo il paese è cambiato di nuovo. Negli ultimi dieci anni i problemi non sono più (soltanto o soprattutto gli asili nido o le strutture per la conciliazione) il problema è diventato un altro ed è sempre più grave. Manca il lavoro. Il lavoro vero, quello che permette di crescere oltre che di guadagnare. Quello con un contratto decente che ti consenta di investire a lungo termine sui sacrifici e sul tempo che togli alla tua famiglia, quello che non è solo per sopravvivere. Quello, per usare una parola tanto odiata da alcuni uomini che serve “per realizzarsi”. Non a caso la maggioranza delle scoraggiate sono donne che hanno almeno il diploma di scuola superiore, hanno mariti con lavori stabili che possono bastare alla famiglia o quasi (considerando le spese che si aggiungono quando una donna sta fuori casa tutto il giorno) e cercano non un “lavoro” ma “il Lavoro”. E lo cercano dopo essersi fermate per qualche anno per stare con i bambini, in quel momento assai delicato che sono i primi anni di vita. 

E questo non ce lo dice l’Istat, ce lo dicono le donne. Che rientrare in un mondo del lavoro “qualificato” dopo i 30 anni è quanto di più impossibile ci sia in questo paese. Quello che si trova, non vale la pena. Economicamente e psicologicamente. Come ci racconta Cristina, designer quarantenne, che dopo aver passato qualche anno con i suoi due bambini ha tentato di rientrare: “Cominciai a spedire curricula a fare colloqui. Ma quei pochissimi che rispondevano offrivano contratti ridicoli, poco gratificanti, e talmente poco retribuiti da poter dire che non ne valeva la pena. Avevo meno di quarant’anni e mi trovavo fuori dal mercato del lavoro. Dopo qualche anno alla fine ho smesso di cercare.” Solo che aggiunge Cristina, “Per me non era solo un fatto economico. Il lavoro ti dà un ruolo nella società, ti dà una valenza, un contorno, ti disegna. Senza, sei una figura indistinta.”

Ecco questo è l’altro vero problema, le donne che non lavorano, ma che vorrebbero farlo, si sentono tagliate fuori dal mondo. Si sentono isolate (perché il lavoro è ancora il primo canale di socializzazione tra le persone adulte) e senza un’identità sociale. Come Erika, avvocato di 36 anni, madre di due bambine. “Dopo aver passato una vita a studiare mi trovo tagliata fuori anche dalle conversazioni con le mie coetanee. Senza lavoro sembra che tu non abbia ambizioni, gusti, interessi. Non ricopri un ruolo quindi non ti considerano sotto il profilo culturale”. 

Privare le donne del lavoro è come privarle della loro stessa identità. Non a caso la nostra lingua non usa il verbo “fare” ma “essere” per indicare una professione. Sono un medico, sono un’insegnate, sono un’ingegnere.

Così capita di sentire: “Sono disoccupata e faccio la mamma”. 

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