Clinton in Asia: gli Usa non cedono sul Pacifico

ROMA – Lo ha detto senza mezzi termini Hillary Clinton: la sua visita nei paesi più poveri dell’Asia rappresenta il “messaggio chiaro e inequivocabile” che gli Stati Uniti rimarranno una potenza del Pacifico.

Primo Segretario di Stato americano a raggiungere Timor Est, la nazione più giovane della regione, la Clinton giovedì ha fatto eco ad alcuni commenti già rilasciati durante un summit tenutosi presso le Isole Cook e reiterati a Pechino, in occasione della due giorni che l’ha vista impegnata il 4 eil 5 settembre con i vertici del Partito comunista cinese. “Non siamo qui per opporci a nessun paese” ha affermato l’ex first lady in presenza del primo ministro timorese Xanana Gusmao” riteniamo che l’Asia e il Pacifico siamo sufficientemente grandi da permettere a più nazioni di prendere parte alle attività della regione”. Per dirla altrimenti: l’incalzare degli Stati Uniti in Asia non avrebbe lo scopo di contenere l’espansione del Dragone. I due paesi hanno tentato di trovare “un terreno comune” per cercare di sciogliere alcuni nodi insidiosi creatisi intorno a Iran, Corea del Nord e Mar Cinese Meridionale, riuscendo a raggiungere un certo grado di “elasticità” nelle loro relazioni. D’altra parte, ha tenuto a puntualizzare il Segretario americano, “gli Stati Uniti, non eviteranno nemmeno di difendere i propri interessi strategici, dichiarando chiaramente quali sono i punti di divergenza”.

Nella piccola Repubblica democratica Washington è andato a “far del bene”. Con la costruzione di infrastrutture e l’avvio di progetti di aiuto sociale, l’Aquila intende allungare la mano ad un paese in cui il 40% degli 1,1 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia della povertà. Il tutto poco a nord dalla base australiana di Darwin, dove lo scorso anno Barack Obama aveva piantato la bandiera a stelle annunciando l’invio di 2.500 marine. Una mossa che ha messo subito in allerta Pechino.

“Il XXI secolo è il secolo del Pacifico” aveva scandito la Clinton lo scorso novembre tracciando le linee guida della politica estera americana in Estremo Oriente. E dalle parole ai fatti, la Clinton è ad oggi il Segretario di Stato ad aver viaggiato di più nella storia degli Stati Uniti e l’unico ad aver visitato tutti e 10 i paesi membri dell’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale (ASEAN). Aveva già messo bene in chiaro le cose l’ex firts lady, quando tre anni e mezzo fa, appena assunto il suo incarico, decise di rompere le convenzioni, scegliendo come meta del suo primo viaggio all’estero l’Asia, anziché l’Europa.

Impegnata in un tour di 10 giorni che ha toccato un totale di 6 stati asiatici, il 4 settembre la Clinton ha raggiunto la capitale cinese per discutere di alcune questioni spinose, causa di continue tensioni nell’area. Alla settima trasferta nell’Impero di Mezzo (due visite nel 2009, una nel 2010 e nel 2011, due quest’anno), il Segretario di Stato americano mancava da Pechino da maggio, quando a portarla nella capitale cinese furono i dialoghi strategici ed economici sino-americani. Al tempo il rischio di un caso diplomatico, innescato dalla fuga del dissidente cieco Chen Guangcheng presso l’ambasciata Usa, aveva fatto schizzare la colonnina di mercurio delle relazioni tra i due paesi, con tanto di sfuriata dei media cinesi.

Anche questa volta l’accoglienza della stampa nazionale è stata a dir poco glaciale, con la Xinhua a fare da apripista: “gli Stati Uniti devono abbandonare l’atteggiamento che li pone al di sopra di alcuni paesi della regione che manovrano come burattini” ha scritto l’agenzia di stampa statale. Sullo stesso spartito il Global Times, spin-off in inglese del Quotidiano del popolo, “lingua e gola” del Partito comunista cinese, secondo il quale Washington starebbe tentando niente meno che di “mantenere l’egemonia sul mondo”.

Ad alzare ulteriormente la temperatura tra le due sponde del Pacifico ci ha pensato l’improvvisa defezione del vicepresidente Xi Jinping, supposto erede del “numero uno” Hu Jintao, che a causa di “uno strappo alla schiena”- secondo quanto riportato da alcuni media di Hong Kong- non ha potuto partecipare al meeting come da programma. Una svista che, si sono affrettati a specificare dai piani alti, ha causato anche l’annullamento dell’incontro con il primo ministro di Singapore e un diplomatico russo.
Nonostante le ormai ricorrenti frizioni tra le due superpotenze, la visita della Clinton ha confermato che, sebbene in disaccordo su diverse questioni, i due paesi riescono “a parlare degli argomenti più spinosi senza mettere a repentaglio i rapporti”.

In cima all’agenda del Segretario Usa la crisi siriana, riguardo alla quale Pechino, per bocca del ministro degli Esteri Yang Jiechi, ha riaffermato il principio di non ingerenza negli affari interni delle altre nazioni. Posto tre volte il veto ad una soluzione interventista dell’Onu, Cina e Russia si sono dichiarate contrarie ad una condanna verso il regime di Damasco anche se, ha chiarito Yang, Pechino non “favorisce nessun individuo o partito” e “sostiene pienamente” la mediazione del nuovo inviato dell’Onu Lakhdar Brhaimi.

Meno accondiscendente sulle questioni territoriali, il ministro cinese ha voluto ricordare come la sovranità cinese sul Mar Cinese Meridionale sia “indiscutibile” e “provata dalla storia”. Da tempo la regione è scossa da un contenzioso che vede Cina, Giappone, Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei litigarsi una serie di piccoli arcipelaghi ricchi di risorse naturali. E se più a nord il dominio sulle Diaoyu (Senkaku in giapponese), negli ultimi giorni, sta mettendo a dura prova le capacità diplomatiche di Tokyo e Pechino, la “battaglia” tra i vari stati asiatici per mettere le mani su Huangyan, Paracel e Spartly non fa dormire sonni tranquilli nemmeno alla Casa Bianca, che vede minacciata la stabilità di alcune tra le rotte commerciali più importanti del globo. E’ interesse nazionale degli Stati Uniti che nel Mar Cinese Meridionale regni pace e stabilità, ha affermato la Clinton durante la sua trasferta pechinese, ponendo ancora una volta l’accento sulla necessità di portare il problema a livello internazionale e di stabilire un “codice di condotta comune da adottare nelle acque contese in base al consenso.” Una proposta sulla quale il Dragone continua a temporeggiare, preferendo negoziare con i paesi vicini su base bilaterale.

 


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