L’Ecuador sceglie ancora la rivoluzione di Correa

TORONTO – Nel decennio 1996-2006, le stanze del Palacio Nacional di Quito hanno assistito al brusco alternarsi di ben sette diversi presidenti della repubblica.

Da quando è comparso sulla scena politica Rafael Correa, invece, rieletto ieri alla guida del paese, per la terza volta consecutiva e col 56,7% dei voti, l’Ecuador ha intrapreso una stagione di inedita stabilità. Nessuno, infatti, dalla seconda metà dell’Ottocento, ha governato quanto lui.
L’incertezza politica era stata accompagnata dalla crisi economica. Scoppiata alla fine degli anni Novanta, essa causò un’inflazione record (oltre il 60%) e determinò una forte svalutazione del Sucre, poi sostituito, nel 2000, con il dollaro, ancora oggi moneta ufficiale. Anche questi, però, sono ricordi lontani. La piccola repubblica andina si è trasformata in un paese dall’economia dinamica, con una crescita annua che supera il 7% e un tasso di disoccupazione che è sceso al punto più basso della sua storia. Al punto che, in tempi di crisi globale, già quindicimila migranti, partiti negli scorsi decenni per la Spagna, sono ritornati a cercare fortuna in patria.
Tale svolta è stata favorita, senz’altro, dalla decisione, assunta da Correa, di rifiutare il pagamento di una porzione del debito pubblico che, dai 241 milioni di dollari del 1970, era giunto a oltre 17 miliardi nel 2006. L’eliminazione della parte ritenuta illegittima, ovvero quella contratta in forma fraudolenta o che non aveva prodotto alcun beneficio per la popolazione, ha consentito di risparmiare 7 miliardi di dollari, inclusi gli interessi. Una somma, questa, che non solo ha evitato l’adozione di politiche di austerità e di (contro)riforme strutturali (vedi il caso della Grecia), ma ha anche reso possibile l’aumento della spesa sociale, passata, con Correa, dal 12 al 25% del bilancio pubblico.
Il cambiamento intrapreso ha riguardato anche un altro dogma del neoliberalismo: le privatizzazioni. Negli ultimi anni, la nazionalizzazione di alcune imprese petrolifere e la ridefinizione delle imposte da versare allo stato, da parte di quelle rimaste private, ha generato un entrata di 2 nuovi miliardi di dollari per l’erario. Fondi che hanno permesso la creazione di bonus contro la povertà e per il sostegno agli alloggi popolari (tra i 35 e i 50 dollari al mese), di cui si avvalgono numerosi ecuadoriani.

Sono questi i risultati alla base della elevata partecipazione alle urne e del successo di Alianza Pais, il partito fondato nel 2006 e oggi in possesso della maggioranza dei 137 scranni parlamentari. Sono usciti, invece, nettamente sconfitti dalle urne tutti gli oppositori di Correa. Il principale esponente della destra, presentatasi divisa al voto, Guillermo Lasso, membro dell’Opus Dei ed ex presidente del Banco de Guayaquil, capitale commerciale dell’Ecuador, ha raccolto un magro 23% e non è riuscito a fare breccia nell’elettorato popolare. Mentre Alberto Acosta, in passato figura di spicco di Alianza Pais, ministro dell’Energia e delle Miniere nel 2007 e, poi, presidente dell’Assemblea nazionale che, l’anno successivo, licenziò la nuova costituzione del paese, non è andato oltre il 3,2%. La coalizione della Unità Plurinazionale delle Sinistre da lui guidata, tra i cui attori principali vi è il partito indigenista Pachakutik, non è stata capace di spiegare come si sorreggerebbe la spesa sociale se, come proposto, si mettesse fine alle politica estrattivista attuata da Correa.
Dunque, la Revolución Ciudadana prosegue e il neo eletto presidente ha vinto la sua battaglia personale contro i media conservatori, tutti fortemente schierati contro di lui. Inoltre, il successo nelle elezioni di domenica dà nuova linfa vitale all’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA), progetto di collaborazione politica ed economica che comprende Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua e un paio di piccoli stati caraibici, nato nel 2004, in opposizione al trattato di libero commercio (ALCA) promosso dagli Stati Uniti. Alla luce del cattivo stato di salute di Hugo Chavez, rientrato proprio ieri a Caracas, Correa va affermandosi come il prossimo leader di questo blocco e la sua visibilità internazionale è in aumento, come dimostrato, di recente, in occasione dell’asilo politico offerto al fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, a oggi ancora rifugiato presso l’ambasciata ecuadoriana di Londra.
Nonostante i richiami al “Socialismo del XXI secolo”, Correa non è certo un pericoloso rivoluzionario. La sua politica continuerà nel solco dell’indipendenza da Washington e seguirà l’impianto “sviluppista” intrapreso dagli altri governi progressisti latinoamericani, con una particolare attenzione alla redistribuzione sociale. Non poco, di questi tempi.

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