Tragedia Bangladesh. Benetton e Primark tra i partner commerciali della Rana Plaza

Arrestato il proprietario mentre cercava di scappare in India. Altre proteste operaie in vista

DACCA – Mentre le mani dei soccorritori non cercano più sopravvissuti, proseguono le polemiche a Savar, il sobborgo a 25km a Nord est di Dacca dove è collassata la palazzina di otto piani. Il bilancio dei morti parla di 381 morti e 1200 feriti, ma le dita puntate sono molto di più. Una di queste è puntate verso le “italianissime”Benetton, ma anche la Itd Srl, o la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa. Un’altra ditta, la Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, in vendita da Padova a Rende, passando per Ascoli Piceno ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza, dove le mani filanti delle donne bengalesi si prodigavano per le grandi multinazionali occidentali per soli 28 euro al mese. 410 l’anno. 14 centesimi l’ora. Ma lo scandalo di ora in ora si sta allargando sempre di più, anche lontano dai confini italiani. Rischiando un boomerang che potrebbe infrangere il buon nome dei marchi più “cool” nelle democrazie occidentali.
Le altre dita sono puntate contro le inglesi “Primark” e “Bon Marche”, dalla spagnola “Mango”. Tutte denunciate dall’olandese “Clean Clothes Campaign”, l’Ong che sta facendo emergere i soprusi ai danni dei lavoratori del tessile. Ma anche la spagnola “Corte Ingles” e la canadese “Joe Fresh” sono nella lista. Tutti pronti a delegare la produzione delle loro “primizie” ad aziende in paesi in via di sviluppo, dove le condizioni di lavoro massacranti sono aggravate dal costante rischio di morte e dolore per via delle strutture fatiscenti e obsolete che ospitano le attività produttive. L’esasperazione della ricerca massima dei profitti a scapito della salute dei lavoratori.
La Rana Plaza è solo una dei puntini che compongono il mosaico del tessile del paese del sud est asiatico. Da sempre nella repubblica democratica nata dalla costola del Pakistan il comparto tessile rappresenta una delle attività principali. Prima la Juta, ora quelli a base di polipropilene: un business che compone circa i tre quarti delle esportazioni. Più di 15 milioni di euro il totale. La fonte di lavoro per più di 3 milioni di persone: il 90% delle quali donne. Questo per far capire la portata dell’evento, la tragicità e l’incidenza di questi eventi sulla vita della popolazione. Chi non tesse è agricoltore. Tanto per tracciare un bilancio non esaustivo ma certamente descrittivo.
Tutte le grandi marche coinvolte hanno già annunciato risarcimenti a favore delle famiglie coinvolte negli incidenti del tessile. Lo hanno fatto la “Loblaw” e la “Primark”. Mentre la nostra capofila, la Benetton solo di recente ha ammesso di aver legami commerciali con la Rana Plaza. Un caso sfuggito ai ferrei controlli di conformità di standard di lavoro dei fornitori diretti e indiretti. Almeno questo è quanto dichiarato dal colosso di Ponzano veneto. Dapprima c’era stata la smentita, poi l’ammissione di una collaborazione. Tutto questo mentre  Sohel Rana, il proprietario del Rana Plaza, è stato arrestato mentre cercava di travalicare i confini con l’India. Le autorità avevano avvertito delle crepe nella struttura, ma Sohel Rana avrebbe costretto il personale ad andare sul posto di lavoro, nonostante il rischio che stavano correndo. “Nessuno di noi voleva entrare nell’edificio, ma i nostri capi ci costrinsero”, ha detto il giorno dell’incidente Nurul Islam, uno dei lavoratori feriti, ad un portale di notizie locale. Le tantissime proteste di piazza di questi giorni stanno portando la temperatura sociale ai massimi storici. E nuove proteste sono previste per i prossimi giorni.

 

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