Pirateria somala: le contraddizioni della comunità internazionale nell’affrontare il fenomeno

ROMA – L’8 febbraio scorso 22 marittimi, equipaggio della petroliera italiana Savina Caylyn sono caduti nelle mani dei pirati somali.

Si tratta di una superpetroliera lunga 266 metri e con una stazza di 105mila tonnellate appartenente alla società armatrice campana ‘Fratelli D’Amato’ con sede a Napoli. La petroliera italiana carica di greggio era in navigazione dal terminal petrolifero di Bashayer, in Sudan, al porto di Pasir Gudang, in Malaysia. L’assalto è avvenuto in pieno Oceano Indiano, tra le coste indiane e quelle somale. I predoni del mare ora li trattengono tutti in ostaggio in attesa che il governo del loro Paese di origine o la società armatrice paghi un riscatto per il loro rilascio. Cinque di essi sono italiani, tre campani, un laziale e un triestino, gli altri 17 sono indiani. Dalla Farnesina hanno fatto sapere che la situazione è sotto controllo e che l’equipaggio sta bene. Dalla Fratelli D’Amato hanno riferito che l’equipaggio ha a disposizione provviste per oltre un mese. Sull’intera vicenda però, è calata una cappa di silenzio. Un silenzio voluto e imposto dal governo italiano in specie il ministro della Difesa, Ignazio La Russa che ha ‘zittito’ i vertici della Marina Militare che forse avevano ‘aperto troppo la bocca’. Nel frattempo, ovviamente le redini sono state prese in mano dalla Farnesina che si dice impegnata in una frenetica attività, animata quasi certamente dalla ‘speranza’ di riuscire a chiudere al più presto la vicenda, per riportare tutti sani e salvi a casa. Si tratta di un nuovo capitolo della pirateria marittima al largo della Somalia che vede uomini e nave italiani vittime di un sequestro.

 

La petroliera è all’ancora presso le coste somale del Puntland, dove hanno i loro covi le varie gang del mare che operano nel mare del Corno D’Africa e Oceano Indiano, sono sette in tutto. Il Puntland è la regione semiautonoma a Nord est della Somalia. Una vera e propria moderna Tortuga composta da una serie di porticcioli, un tempo di pescatori ed ora basi logistiche pirate. Però, pur conoscendo il luogo esatto dove vengono condotte navi e uomini catturati, fino ad oggi la comunità internazionale non è intervenuta per porre fine a tutto questo. Non si è nemmeno preoccupata, una volta che è stato pagato il riscatto e l’equipaggio è stato messo al sicuro, di cercare di intercettare sia i pirati sia il denaro. Nessuno si è nemmeno mai preoccupato di identificare e bloccare i colletti bianchi che verosimilmente operano per riciclare il denaro frutto dei sequestri. Questo è uno degli aspetti che evidenzia la doppiezza con cui viene affrontato il fenomeno della pirateria somala da parte della comunità internazionale. Dopo circa 18 mesi altri italiani sono caduti nelle mani dei pirati somali. La volta precedente era ‘toccato’ al rimorchiatore d’altura ‘Buccaneer’ con il suo equipaggio di 16 marittimi di cui dieci italiani. Catturati nel Golfo di Aden alla vigilia di Pasqua del 2009, era l’11 aprile, sono stati poi rilasciati quasi 4 mesi dopo, il 9 agosto dello stesso anno. Per il loro rilascio sono stati ‘sborsati’ milioni di dollari.

 

Di questi milioni alcuni sono andati anche alla gang del mare che tratteneva in ostaggio nave e equipaggio. A loro, in mare, hanno consegnato 4 borsoni cellofanati in cui, con loro immensa sorpresa, i pirati somali hanno trovato più di quanto chiedevano. Ogni  borsone conteneva un milione di dollari. E’ questo il motivo per il quale nel mare del Corno D’Africa e nell’Oceano Indiano un migliaio di somali si dedicano alla pirateria marittima. Un’attività criminale che in meno di sette anni ha permesso loro di raccogliere milioni di dollari proventi dei riscatti che chiedono e ottengono per il rilascio delle navi e dei loro equipaggi che catturano. Come insegnano tutti gli episodi verificati finora per giungere al rilascio degli ostaggi occorre avviare una paziente trattativa tessendo anche contatti internazionali e ricorrendo anche a intermediari locali. Ovviamente sostenendo dei costi. E’ grazie ai riscatti pagati che i moderni filibustieri si sostengono pertanto, nessuna forma di negoziato che non porti ad esso ha mai avuto finora successo.

 

Gli ostaggi tornano a casa solo se il governo del loro Paese d’origine o la loro società armatrice pagano. Solo in determinate occasioni, in cui si è ricorso al blitz militare per liberare gli ostaggi, non è stato pagato alcun riscatto. Però, purtroppo in alcuni casi si sono registrate delle perdite umane tra gli ostaggi. Per cui il ricorso al blitz militare resta sempre l’ultima opzione. Mentre, cresce l’ipotesi di dotare tutti i mercantili, che transitano nel mare dei pirati, di guardie private armate a bordo. Meglio prevenire che curare secondo alcuni. L’ipotesi però, ha incontrato diversi ostacoli giuridici e non poche opposizioni che in molti Paesi, Italia in testa, si lavora per superare. Sono molti però, che ritengono che esso possa inasprire le modalità di sequestro con un aumento della violenza. Alla luce del fatto che la liberazione di ogni cargo catturato è successiva solo al pagamento di un riscatto mette in evidenza ancora una volta la doppiezza del comportamento di molti Paesi. Nel mare dei pirati sono infatti, operative delle missioni navali militari internazionali di contrasto ai pirati somali. La stessa Italia vi ha finora impiegato oltre una decina di navi da guerra della Marina militare italiana. Navi che si sono avvicendate periodicamente in questo teatro operativo a partire dal 2005. Navi da guerra che operano sia sotto bandiera nazionale sia integrate all’interno di dispositivi anti pirateria internazionali ed europei.

 

L’ultima arrivata è la Fregata Espero che dal primo marzo ha sostituito la Fregata Zeffiro, al termine dei tre mesi di attività operativa, nell’ambito della missione Ue di contrasto alla pirateria, Atalanta. I Paesi che sono impegnati in queste missioni anti pirati, mentre da un lato li combattono dall’altro trattano con loro scendendo a patti e pagandogli un riscatto per ottenere il rilascio dei loro mercantili catturati. Riscatti che di fatto, in parte, vanno a finanziare quell’attività piratesca che questi Paesi cercano invece, di contrastare. La cosa fa un po’ sorridere, ma è una delle tante realtà che avvolgono il fenomeno. In effetti nel mare dei pirati scorre un mare di dollari a cui direttamente o indirettamente attingono in tanti. Dalle stesse missioni di contrasto ne traggono giovamento in tanti. Il mantenimento delle varie missioni navali internazionali anti pirateria ha un costo per il Paese che vi partecipa. La stima fatta è di circa 100mila dollari al giorno per nave militare. Un costo ripartito tra costi carburante, viveri e indennità degli equipaggi. A fornire assistenza nell’area sono alcuni Paesi come Gibuti e Yemen. La sola missione Ue Atalanta ha un costo di circa 2 milioni di euro al giorno pari a 720milioni l’anno. L’Italia spende, per circa tre mesi di missione di un’unità navale della Marina Militare, circa 9 milioni di euro. Un contrasto che sulla carta ha raggiunto tanti obiettivi.

 

Però, il fatto che, finora i pirati somali hanno catturato centinaia di imbarcazioni e un migliaio di marinai, equipaggi delle navi catturate sembra in pratica inefficiente, dimostra che un manipolo di uomini tiene in scacco un’intera flotta navale militare. Gli attacchi infatti, vengono condotti da una mezza dozzina di pirati che poi, impossessatisi del mercantile, si prendono anche gioco dei militari che giungono sul posto richiamati dal segnale di soccorso lanciato dal cargo attaccato. Gli ostaggi nelle mani dei pirati sono in gran parte di nazionalità filippina, egiziana, thailandese, indiana, siriana, pachistana, ucraina, cinese e cingalese. Vi sono anche alcuni cittadini europei, inglesi, greci, italiani e danesi. Tra i marittimi trattenuti vi sono anche dei minori, almeno sette. Si tratta di ragazzi e adolescenti di nazionalità egiziana e danese. I primi erano mozzi a bordo di alcuni pescherecci egiziani caduti nelle mani pirati somali, mentre i secondi erano a bordo dello Yacht  ING catturato lo scorso 24 febbraio nell’Oceano Indiano. Non è dato sapere con precisione quanti siano le navi, almeno una trentina, e quanti i marittimi, almeno settecento, trattenuti in ostaggio dai pirati somali. Per loro oltre che trattare e scendere a patti con i loro sequestratori null’altro è stato mai fatto finora. Il perché potrebbe essere facilmente comprensibile. Dopo un anno e mezzo si è tornato a parlare di nuovo del sequestro del rimorchiatore italiano Buccaneer. La cui vicenda per molti aspetti somiglia, per le tante analogie che li accomunano, a quella della Savina Caylyn. Finirà anche nello stesso modo? Per ora non è dato saperlo. Comunque i marittimi del Buccaneer al loro ritorno in patria hanno raccontato cosa voglia dire finire nelle mani dei pirati somali. Per 118 gironi hanno trascorso giornate difficili e ancora oggi ne mostrano i segni, fisici e psicologici. I pirati li sorvegliavano a vista, non hanno mangiato ne bevuto a sufficienza, le provviste se le sono prese i pirati, e non sono riusciti nemmeno a dormire abbastanza. L’incubo sembrava non finire mai. A volte hanno subito torture psicologiche inimmaginabili. I giorni sembravano non passassero mai, mentre a casa cresceva l’ansia dei familiari e il timore per la loro sorte. Il tutto nel totale distacco dello stato sia prima sia dopo il sequestro. I marittimi del Buccaneer hanno vissuto una terribile esperienza che ha segnato la vita di molti di loro e dei loro familiari. Questo però, è quello che accade a tutti i marittimi che cadono nelle mani dei pirati somali. Del resto questi uomini sono lavoratori e non sono soldati che vanno a combattere una guerra e pertanto, non sono preparati a sopportare le angherie e le privazioni che invece, poi subiscono se cadono nelle mani dei pirati somali.

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