Elezioni. L’attesa dell’Ungheria, il cambiamento dell’India e il coraggio degli Afghani

ROMA: E’ tempo di elezioni e l’occhio del mondo è puntato sui Paesi che in questi giorni vedono il loro popolo recarsi alle urne, dall’Europa all’Asia. I protagonisti: Ungheria, India e Afghanistan.

Ungheria. Sono aperti oggi i seggi in Ungheria per definire il nuovo parlamento. I sondaggi per ora danno per vincente Fidesz, il partito del nazional-populista Viktor Orban. A sfidarlo l’Alleanza democratica, una coalizione di cinque partiti che stamattina veniva accreditata di un 23%, mentre è grande l’attesa per vedere quale sarà l’affermazione per il partito di estrema destra Jobbik, che con ritmo martellante durante i comizi e lungo i cortei, ha ripetuto la parola d’ordine: <<No all’Unione europea, sì alla grande Ungheria>>. Partito molto forte e ricco di consensi, già nel 2010 con il 16,7% di voti a favore e ora con la speranza di arrivare oltre.


Il numero previsto degli Ungheresi che si recheranno alle urne è di otto milioni e per la prima volta, grazie a un recente provvedimento governativo, il diritto di voto verrà esteso anche ai cittadini di etnia magiara residenti oltre i confini nazionali e questa per i membri delle comunità ungheresi di Romania, Slovacchia e Ucraina, rimasti senza patria in seguito allo smembramento del vecchio impero Asburgico, si tratta di una conquista epocale.  Buona parte dei loro consensi, con ogni probabilità, andrà ai candidati ultranazionalisti: «Vogliamo farla finita con la vecchia classe politica – annuncia Márton Gyöngyösi, uno dei dirigenti di punta del partito Jobbik -. Il nostro obiettivo è prendere le distanze da Bruxelles, combattere il crimine, la corruzione e lo strapotere delle banche». Dietro l’immancabile patina populista, si nascondono però forti venature razziste e xenofobe. Nel novembre 2012, durante un discorso in aula, lo stesso Gyöngyösi aveva proposto la schedatura di tutti i parlamentari di origine ebraica. «Chiediamo l’istituzione di una gendarmeria nazionale – aggiunge -, sul modello delle milizie create nel primo dopoguerra dall’ammiraglio Horty». La figura del vecchio reggente filofascista, che governò il Paese dal 1920 al 1944, sembra essere tornata improvvisamente in auge: un suo busto in bronzo è stato installato pochi mesi fa in piazza Szabadsàg, nel centro delle capitale. Circa nello stesso periodo, durante un comizio Jobbik, sono state date alle fiamme alcune bandiere europee. E’ infatti noto che tra Budapest e Bruxelles non corre buon sangue: dopo aver stravinto col 53% dei consensi alle elezioni del 2010, il premier di centrodestra Viktor Orbán, leader del partito Fidesz, ha cambiato unilateralmente la costituzione, varato una discussissima legge sui media e stretto accordi economici con la Russia di Putin. Nel 2012, a fronte di tali iniziative, l’Unione europea minacciò di sanzionare economicamente l’Ungheria. Orbàn, dal canto suo, reagì con dichiarazioni di fuoco: «Ho combattuto contro il regime comunista e non voglio più ripetere questa esperienza – disse -. Non vogliamo più questo tipo di Europa».
Oggi, la sua riconferma appare quasi certa, lo dimostrano i muri di Budapest tappezzati col volto del premier, mentre sia le tv pubbliche che quelle private risultano, più o meno indirettamente, sotto il controllo dei filo-governativi e un gruppo di giornalisti dissidenti, clamorosamente licenziati vari mesi fa dalla televisione statale, sono in sit-in perenne davanti alla sede dell’emittente: le loro proteste, tuttavia, appaiono più che mai velleitarie. «Oggi l’Ungheria è dominata da una lobby politico-economica di stampo oligarchico – dichiara il candidato dell’opposizione, il socialista Attila Mesterházy -. Le forze di sinistra sono state letteralmente imbavagliate. Inoltre, ci sono stati brogli durante la raccolta delle firme. Le forze di maggioranza hanno dato vita a una vera e propria tirannia parlamentare, liquidando il pluralismo e lo stato di diritto». Gli ultimi sondaggi lasciano poco spazio a fantasia o colpi di scena: l’opposizione è data a meno del 20%, la maggioranza dovrebbe racimolare agevolmente oltre la metà dei voti. 

 

India. Come cinque anni fa è il candidato della Corporate India ed è il favorito nei sondaggi e promette investimenti, sviluppo e occupazione: è Narendra Modi, leader del partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp), che sente di avere in pugno la maratona elettorale in nove tappe, con apertura dei seggi lunedì e chiusura prevista il 12 maggio. Ci vorranno quindi 72 giorni perché gli 814 milioni di aventi diritto (quasi tutta la popolazione dell’Unione europea e degli Stati Uniti messe insieme) possano esprimere il proprio voto. I risultati saranno noti il 16 maggio.
Da bambino accompagnava il padre ambulante a vendere the sui treni, Modi, oggi 63 anni, è al governo del Gujarat dal 2001 e proprio sulle orme di questo Stato, che ospita la popolazione dell’Italia su una superficie di un terzo più piccola, ha costruito la sua campagna elettorale, quest’anno come nel 2009. Il Gujarat, con un Pil doppio di quello della Slovenia, non è solo la quinta economia del Subcontinente ma anche lo Stato indiano che forse ha conosciuto lo sviluppo più rapido negli ultimi vent’anni, con tassi spesso a doppia cifra e superiori a quelli nazionali. Inoltre il 90% delle strade è asfaltato e la corrente elettrica arriva regolarmente tutti i giorni, tutto l’anno, a differenza di molte aree del Paese dove le imprese sono costrette a dotarsi di costosi generatori autonomi per non dover interrompere la produzione durante i frequenti e lunghi black out.
«Vota per Modi e Modi farà per l’India quello che ha fatto per il Gujarat», ripetono i suoi sostenitori, alcuni dei quali hanno nomi importantissimi come Mukesh Ambani, l’uomo più ricco del Paese, il presidente delle Reliance Industries e l’ex presidente di Tata, Ratan Tata. Modi promette 250 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni, 100 nuove smart city, investimenti infrastrutturali, semplificazione normativa, taglio della burocrazia e sviluppo del commercio come cuore della politica estera del Paese. Senza rinunciare ad alcuni dei cavalli di battaglia del nazionalismo economico indiano, compresa l’ostilità nei confronti delle multinazionali della grande distribuzione. Più in generale ma non meno importante insomma il Bjp sembra promettere soprattutto una maggiore capacità di governare e varare quelle riforme che servono al Paese per liberare il suo potenziale. E forse stavolta ci riuscirà, visto che il suo avversario si dimostra già debole in partenza: il partito della dinastia Nehru-Gandhi è macchiato da scandali di corruzione e al centro di una sofferta transizione. Il front runner è il figlio di Sonia, Raul Gandhi (43 anni) e si è limitato a ribadire la promessa di potenziare il programma alimentare a favore delle aree rurali di un Paese che vede ancora un terzo della popolazione vivere con meno di 1,2 dollari al giorno (secondo la Banca mondiale). I più disincantati tra i suoi membri si accontenterebbero di conquistare 100 seggi, dai 206 attuali, facendo leva quindi solo sugli Stati più poveri.

Afghanistan. La vera sorpresa e la rivelazione sbalorditiva è stato il record d’affluenza (58%) alle presidenziali afghane. Ieri mattina alle sette si sono aperte le urne e sette milioni di elettori, sui 12 aventi diritto, si sono messi pazientemente in fila davanti ai seggi. Niente ha potuto farli desistere, nè il freddo nè la pioggia battente e tantomeno i 140 attacchi talebani nel giro di 24 ore. Tutto, pur di mettere fine ai 13 anni di governo Karzai e segnare il primo passaggio democratico di potere nella turbolenta storia del Paese. Il voto in risposta agli attacchi terroristici: un modo pacifico di condannare l’estremismo, anche a costo di rischiare la vita, per scegliere un futuro migliore e costruire il futuro del Paese attraverso un processo politico pacifico. Ai quattro angoli di Kabul le file di fronte ai seggi erano lunghissime, così come lo erano nelle zone rurali e addirittura ieri sera in alcuni collegi le schede erano finite, che se voleva essere un tentativo bieco di Karzai di inceppare la macchina elettorale non è evidentemente riuscito, come dimostra la determinazione dell’anziano in attesa che dice: «Sono qui perchè non voglio più vedere il mio Paese nel sangue. Voglio un futuro di pace per i miei nipoti». C’è ancora di più: il gruppo di voto più attivo è stato quello composto dalle donne, il 36% dei votanti. Più agguerrite e numerose del solito sono state le giovani, che non hanno esitato a lasciarsi fotografare con smaglianti sorrisi mentre erano in attesa di dare molto più di un voto per un nuovo governo ma il rifiuto del terrorismo e un’occasione da non perdere per acquisire maggiori diritti e cambiare il Paese, a dispetto degli attentati e delle minacce di morte.
Da oggi inizieranno le operazioni di conteggio e sarà un processo lungo che porterà ai risultati preliminari non prima del 24 aprile, mentre per quelli definitivi bisognerà aspettare il 14 maggio.  

 

 

 

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