Iran e Arabia Saudita: la nuova guerra fredda

ROMA – Iran e Arabia Saudita sono due paesi che fanno ampio ricorso alla pena di morte: solo nel 2015 le condanne alla pena capitale sono state 157 in Arabia Saudita e più di mille in Iran. Le somiglianze tra i due paesi non si fermano certo qui: le loro leggi sono basate sul Corano, il clero musulmano gode di straordinario potere e privilegi eppure proprio una condanna a morte ha segnato una profonda spaccatura tra i due paesi.


L’uccisione di Nimr al-Nimr

Lo scorso 2 gennaio in Arabia Saudita sono state condannate a morte 47 persone, tra cui Nimr al-Nimr, leader religioso sciita, accusati di avere legami col terrorismo. L’Iran ha condannato l’esecuzione di al-Nimr e l’ambasciata saudita a Teheran è stata attaccata dai manifestanti iraniani. L’Arabia Saudita, con l’appoggio di altri paesi sunniti come Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan, ha allora interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran.

Ma perché l’Iran dovrebbe vendicare l’uccisione di un cittadino di un’altra nazione? E’ opportuno precisare che l’Iran è un paese a maggioranza sciita, da anni rivale dell’Arabia Saudita, a maggioranza sunnita. Vendicare la morte di Nimr al-Nimr è un’occasione per affermarsi agli occhi del mondo come protettore degli sciiti, ormai in netta minoranza rispetto ai sunniti.

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Le origini del conflitto

Negli anni Settanta l’Iran era governato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, alleato degli Stati Uniti e l’Arabia Saudita stava avviando una rapida modernizzazione di paese e costumi a seguito del boom petrolifero.

Nel febbraio 1979 il regime autoritario iraniano fu rovesciato da una rivoluzione capeggiata da religiosi conservatori e ribelli, oppositori della dittatura. Nello stesso anno, in Arabia Saudita un gruppo di estremisti religiosi occupò la Grande Moschea della Mecca protestando per l’eccessiva occidentalizzazione che il paese stava assumendo. Dopo giorni di combattimento atti a sedare la rivolta, l’esercito saudita riprese possesso della moschea, l’Iran si trasformò in una teocrazia islamica e la monarchia degli al Saud in Arabia Saudita consegnò ingenti capitali di denaro e potere al clero sunnita, sperando che questa strategia gli consentisse di non replicare la deposizione dello scià iraniano.

Sciiti e sunniti, che prima erano amalgamati nella società, cominciarono ad essere rivali e anche nei regimi sunniti più laici, ogni sciita veniva visto come un potenziale pericolo. 

I benefici dell’Isis e i conflitti interni

Oggi, questo conflitto sembra beneficiare l’Isis, che fa leva proprio sulle divisioni tra sciiti e sunniti per destabilizzare le popolazioni locali. Inoltre, solo tre mesi fa Iran e Arabia Saudita si erano sedute allo stesso tavolo a Vienna per discutere del processo di pace in Siria, che ora rischia di essere vanificato. 

In Yemen, le coalizioni saudite combattono contro gli Houthi, sciiti yemeniti appoggiati dagli iraniani; in Kuwait gruppi affiliati all’Isis hanno compiuto attentati ai danni degli sciiti e parte del Libano è sotto il controllo degli Hezbollah, anch’essi sciiti.

In Iraq invece già dal governo del primo ministro Nuri al Maliki sono state adottate politiche discriminatorie contro i sunniti, proprio questo processo, che ha trovato il suo terreno fertile nell’Iraq occidentale a maggioranza sunnita, ha fatto sì che l’Isis potesse proliferare.

In Siria gli alauiti, una minoranza sciita di cui fa parte il dittatore Assad, combattono i sunniti. 

Il nuovo scenario geopolitico

Ma non sono solo Arabia e Iran a essere cambiati. Anche gli Stati Uniti, storici alleati dell’Arabia, hanno criticato il regime saudita a seguito dell’esecuzione di al-Nimr. Del resto, i rapporti tra i due paesi si erano già deteriorati nel 2011 quando il governo americano aveva deciso di non sostenere il regime di Mubarak durante le primavere arabe.

Un conflitto aperto tra Arabia Saudita e Iran sembra essere poco probabile ma sicuramente, l’attuale spaccatura politico-religiosa e il non schieramento degli Stati Uniti cambiano gli scenari di una situazione geopolitica che sembra non avere compimento.

 

 

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