Pechino stringe la morsa sul web: nel mirino Sina Weibo

PECHINO – Dalle semplici voci di corridoio ai fatti concreti, ciò che si temeva da tempo è diventato realtà: venerdì le autorità cinesi hanno reso noto un nuovo provvedimento in base al quale tutti gli utenti di Internet- società comprese-dovranno effettuare la registrazione sui siti di microblogging utilizzando il loro vero nome.

Banditi gli pseudonimi, dunque, ma non gli amati nickname, ai quali si potrà ricorrere una volta terminata la registrazione. Secondo quanto scritto dal South China Morning Post, tre mesi è limite di tempo concesso ai netizen per mettersi in regola, mentre per i ritardatari sono già previste sanzioni legali oltre alla perdita del diritto di pubblicare post e commenti.

La notizia non fa che confermare una tendenza osservabile da diverso tempo e in acceleramento dalla scorsa primavera, quando il profumo dei “gelsomini” arabi valicò la Grande Muraglia: il governo cinese continua a stringere la morsa sui principali mezzi di divulgazione dell’opinione pubblica, da Internet ai media ufficiali, con occhio particolarmente attento verso il brulicante mondo dei social network e dei microblog. E lo fa con ancora maggior solerzia da quando l’ultima riunione plenaria del comitato centrale del Partito ha dato il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che, tra nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi, richiami all’ordine rivolti al mondo della carta stampata e un più severo monitoraggio del web, ha lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti.

E in questo giro di vite “virtuale”, la prima vittima è ovviamente Sina Weibo, sorta di Twitter in salsa di soia, che recentemente ha festeggiato i 250 milioni di utenti, minacciando così di superare il suo omologo occidentale quanto a bacino d’utenza. Una piattaforma online, questa, che negli ultimi mesi ha dato spazio ad accesi dibattiti, dall’incidente dal disastro ferroviario di Wenzhou, alle tristi storie dei dissidenti, passando per gli innumerevoli scandali alimentari, sino ad approdare alle recenti rivolte del sud della Cina e ai segretissimi dati sul reale stato d’inquinamento dell’aria che Pechino si guarda bene dal rendere noti.

Unico spazio in cui i cittadini possono far sentire la propria voce, i microblog se da una parte sono considerati dal governo cinese un veicolo d’informazione potenzialmente molto pericoloso, allo stesso tempo costituiscono un’importante valvola di sfogo e danno la possibilità di tenere sotto controllo gli umori del popolo. Uno sbocco utile per tutti coloro vogliano esternare i propri punti di vista e i propri sentimenti; e meglio che lo facciano alla luce del sole, piuttosto che nascosti nell’ombra, devono aver pensato dalle parti di Zhongnanhai.

La comunità di Internet in Cina vanta più di 500 milioni di membri, aggiudicandosi il primo posto nella classifica mondiale. Un primato che rende ancora più necessario un sistema efficiente volto a controllare quel marasma di caratteri che ogni giorno si riversa sulla la rete, assicurando un controllo che, a quanto pare, il Great Firewall non riecse a garantire. Il sistema di censura del web, creato nel 1998, e che opera attraverso un filtro in grado di bloccare le parole sensibili, non ha mancato più volte di fare cilecca, inerme davanti alla velocità con la quale riescono a circolare le notizie sui microblog, molto superiore rispetto a quella di qualsiasi altro sito o piattaforma online.

Ed è così che lo scorso 18 maggio è nata la “Lega contro i rumori”, un gruppo spontaneo- o presunto tale- di microbloggers che ha lo scopo di ripulire il web cinese, individuando false notizie e pettegolezzi (comprese, ovviamente, le voci in grado di danneggiare l’immagine del Partito), responsabili di insinuare tra le persone diffidenza, paura e sospetto. In questi ultimi mesi, la stampa ufficiale non ha concesso sconti, bollando più volte i rumors che compaiono in rete come “droghe sociali”, non meno nocive della pornografia online o del gioco d’azzardo.

Proprio pochi giorni fa, Zhang Yiwu, professore di cultura cinese presso la Peking University, in un editoriale pubblicato su Huanqiu -versione online del Global Times- metteva in guardia dal fenomeno dilagante su Weibo della violenza verbale, sottolineando come minacce e intimidazioni nella sfera virtuale rischino di trasformarsi in azioni violente nella vita reale.

Pertanto, alla nascita dell’Anti rumour league ha fatto seguito un’accesa controversia sulla natura stessa dei microblog, se siano da considerarsi alla stregua dei media tradizionali o come semplici voci di corridoio. Ma tra la ridda di voci in materia, sicuramente una cosa è certa: la creatura di Sina Corp-primo operatore di servizi microblog cinese- possiede un potere creativo e destabilizzante al contempo. Zhang Tiezhi, che scrive per la rivista taiwanese Xin Xinwen, ha affermato che: “Weibo è solo un aiuto per la lenta formazione della società civile non ancora giunta a piena maturazione. Osservare ciò che accade su Weibo non è ancora in grado di trasformare il paese, però ha già trasformato il dibattito pubblico in Cina. Passare dal dibattito pubblico all’azione, questo è il prossimo passaggio.”

Una ragione sufficiente che ha spinto il governo cinese a ribadire la propria posizione sull’infosfera. Lo scorso 28 novembre il capo dell’ufficio statale per l’informazione in Internet, Wang Chen, citava in un articolo pubblicato sul Quotidiano del Popolo le decisioni prese dal Comitato centrale di ottobre, rimarcando la necessità di monitorare con più attenzione l’opinione pubblica veicolata attraverso i microblog.

Proprio la scorsa estate Pechino aveva avuto modo di assaggiare la lama acuminata di Weibo, quando l’informazione in rete sbugiardò i primi tentativi del governo volti a ridimensionare la reale entità dell’incidente ferroviario di Wenzhou, gettando le autorità in un notevole imbarazzo.

Ed è così che nel tentativo di regolamentare il mondo sfuggente dei Twitter “made in China”, le autorità hanno assunto ancora un’altra tattica: stare al passo con i tempi, diventando a loro volta protagoniste e partecipi del fenomeno, con lo scopo di dominarlo e assecondarlo dal suo interno. Il governo e molte agenzie pubbliche hanno, infatti, deciso di mantenere i cittadini informati riguardo alle loro attività proprio aprendo account sulle piattaforme microblogging.

Secondo un rapporto riportato lunedì scorso dal Quotidiano del Popolo, solo su Weibo, sarebbero già circa 20mila gli account riconducibili ad istituzioni governative, di cui oltre 10mila facenti capo a ministeri e 9mila ad uffici provinciali. Un provvedimento, questo, che, oltre a permettere loro di rafforzare la propria immagine, ha chiaramente lo scopo di valutare le reazioni e i sentimenti in seno all’opinione pubblica.

Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: questo Weibo è davvero così pericoloso come sembra? Si e no. Diversi esperti, infatti, hanno evidenziato la presenza di un “filtro sociale”, che di fatto limita l’accesso ad informazioni e opinioni per così dire “alternative” solo ad un certo tipo di persone, con un certo tipo di interessi e dotate di un certo background culturale. In altre parole di quell’1,3 miliardi di cittadini che popolano l’Impero di Mezzo, quelli in grado di utilizzare i media in senso socialmente utile non sono poi molti.

Una constatazione che d’altra parte non sembra riuscire a dissipare i timori della maggior parte degli internauti, i quali paventano un restringimento della “zona grigia” entro la quale è lecito muoversi pur se non pienamente legale. La strategia del “segnare punti sulla linea di campo” (ca bian qiu), ovvero la tecnica di effettuare dichiarazioni al limite tra ciò che è lecito e ciò che è illecito affermare, in un futuro non troppo lontano, potrebbe rivelarsi un’arma di difesa insufficiente.

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