A novembre vincerà chi avrà capito la nuova America

ROMA – Può sembrare scontato ma non lo è affatto: a novembre, nelle elezioni più incerte e avvincenti dal 2000, quando a contendersi la Casa Bianca furono Bush junior e Al Gore, ex vice di Clinton, vincerà il candidato che avrà capito fino in fondo la complessa composizione sociale della nuova America.

E stiamo attenti a non sottovalutare il fenomeno Trump: presentato dai media come un personaggio da circo, fin dalla bizzarra capigliatura che lo contraddistingue, e attaccato persino da papa Francesco per la sua folle idea di erigere un muro alla frontiera col Messico, per giunta a spese del governo messicano, questo eccentrico miliardario newyorkese sta sbaragliando tutti gli avversari di una compagine, quella repubblicana, che negli otto anni della presidenza Obama si è radicalizzata al punto di spianare la strada a un estremismo che cancella sia il centrismo di Eisenhower e Nixon sia, addirittura, il liberismo di Reagan e dei due Bush, per giungere a un fondamentalismo da crociata, a uno spirito da guerra contro il mondo, a un radicalismo che rende legittime persino posizioni che un tempo sarebbero state non solo marginali ma, probabilmente, considerate intollerabili dalla maggior parte della popolazione.
L’America del 2016, al contrario, è un paese nel quale trentacinque anni di liberismo selvaggio, contrastato unicamente da Obama e con risultati inferiori alle attese, anche a causa della maggioranza al Congresso saldamente in mano ai repubblicani, quest’America, dicevamo, è un paese in cui anche un personaggio caricaturale come Trump può ottenere udienza e, a quanto pare, distanziare in maniera eclatante i rivali del proprio schieramento.
Non a caso, l’unico avversario in grado di impensierire un minimo il magnate in fuga solitaria è Cruz, del quale gli osservatori più maligni pensano che, a differenza di Trump, non faccia il pazzo per scaldare i cuori della base repubblicana più esaltata ma sia letteralmente un folle: il tipico esponente di quell’America profonda che ha nel Texas uno dei suoi baluardi, con tutte le distorsioni legate, ad esempio, al commercio delle armi e addirittura alla possibilità, recentemente introdotta, di esibirle sul modello dei vecchi cow-boy.
Un personaggio pericoloso, un John Wayne anacronistico e a tratti ridicolo (ad esempio nello spot elettorale in cui si mostra mentre mangia una striscia di pancetta fritta grazie all’olio fuoriuscito da una mitragliatrice con la quale si è appena esercitato in un poligono), un retrogrado, oscurantista e sostenuto dal peggio del peggio della società americana, eppure sembra essere l’unico in grado di contrastare l’avanzata dirompente di un Trump che più le spara grosse, più miete consensi, più si rende insopportabile agli occhi di tutto il mondo civile, più viene idolatrato da folle che attendono per ore il suo arrivo, più insulta tutto e tutti, più cresce nei sondaggi, riuscendo nell’impresa di far sembrare un pivello senz’arte né parte quel Rubio (“little Marco”, come lo apostrofa in maniera irridente) su cui l’establishment repubblicano ha puntato le proprie carte dopo il ritiro di un Jeb Bush mai entrato in partita, a dispetto dei milioni investiti, del cognome pesante, del sostegno esplicito del fratello e di previsioni che lo davano se non proprio favorito, comunque fra i nomi di punta del GOP in vista del confronto con i democratici.
Lo stesso dicasi in campo democratico dove, oggettivamente, nessun commentatore, all’inizio, avrebbe puntato un centesimo su un anziano senatore di un minuscolo stato come il Vermont, il quale oltretutto si definisce socialista (termine che in America è considerato quasi una parolaccia), e invece, per quanto il Super Tuesday abbia confermato la forza della Clinton negli stati del Sud, Sanders non è ancora fuori dai giochi e di sicuro, qualora dovesse ottenere la nomination democratica, Hillary non potrà privarsi del bacino elettorale e direi anche del carisma e della presa del vecchio Bernie su un elettorato a lei ostile quale quello dei giovani e della media borghesia che la crisi ha privato delle antiche certezze.
In poche parole, se la Clinton desidera davvero diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, dovrà dismettere i panni di lady Terza via e indossare quelli del riformismo kennediano, della saggezza di Roosevelt, della moderazione e della perizia diplomatica di Carter in politica estera. Dovrà, inoltre, smettere di essere Billary (ossia la spumeggiante first lady di un personaggio a suo tempo molto amato ma ormai consegnato ai libri di storia da gran parte dell’opinione pubblica) e tornare ad essere pienamente Hillary, dovrà trovare una propria dimensione, dovrà evitare di peccare di presunzione, credendo di avere la vittoria in tasca prima ancora di iniziare la competizione con il funamnolico Trump, e dovrà entrare nelle pieghe dell’America anti-newyorkese, nelle case di chi è rimasto vittima di un modello sociale ed economico insostenibile, nei cuori di generazioni che non hanno mai vissuto alcun “American dream” e hanno smesso anche di crederlo possibile e in sintonia con i sogni e con le speranze di chi ritiene gli stessi Clinton responsabili della crisi che ha sconvolto l’intero Occidente, in quanto subalterni al pensiero unico liberista e reaganiano.
Di sicuro, Trump ha capito e saputo interpretare al meglio la rabbia dell’America repubblicana. L’auspicio è che Hillary abbia capito e sappia interpretare al meglio quella dell’America democratica, altrimenti si preannuncia un periodo tragico per entrambe le sponde dell’Atlantico.

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