L’anticamera della morte. La storia di Francesco Maggi, ex operaio Ilva

ROMA – La doverosa premessa a ciò che state per leggere è che, forma a parte, non si tratta di una semplice intervista.

La storia di Francesco Maggi, 38 anni, da oltre tre malato di linfoma, è molto più che una banale testimonianza: le sue parole equivalgono a un vero e proprio testamento, a un lascito di vita vera prezioso, perchè necessario e fondamentale per comprendere quanto sta accadendo a poca distanza dal nostro quotidiano. Francesco si è ammalato di lavoro, di quel lavoro che è ormai merce rara, e che sempre più spesso viene utilizzato come mezzo clientelare o strumento di compravendita: Francesco è un ex operaio dell’Ilva. Ha lavorato per sei anni in uno dei reparti incriminati, finchè non gli hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkin e, tempo qualche mese, l’azienda lo ha licenziato in tronco.

Raccontare la storia di Francesco ha in sé un’importanza enorme  tale da mettere in secondo piano tutto il resto: rappresenta il motivo per cui l’Ilva è, per migliaia di persone, “l’anticamera della morte”; è la storia di chi porta sulla propria pelle i segni del silenzio omertoso che per anni ha contrassegnato l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti di quanto stava accadendo a Taranto.

La storia di Francesco non è solo quella di un ex operaio dell’Ilva, né quella, drammaticamente simile a tante altre, che ogni giorno dissemina morte a Tamburi. È quella di chi vive a poche centinaia di metri da inceneritori, discariche, oleodotti, petrolchimici, distese di amianto. Così come Francesco, tanti altri si ammalano, e talvolta muoiono, a causa di politiche industriali e ambientali scellerate, dettate spesso dalla smania di guadagno, dall’incapacità o dall’inerzia delle amministrazioni, locali e non. A chi ha pagato, sta pagando e pagherà ingiustamente con la propia  vita in questo frammento di una storia tutta italiana.  

Come ti sei accorto di essere malato?
Nel novembre del 2009 ricorreva il rinnovo del libretto di salute,un documento che certifica le condizioni di salute di ciascun operaio, e così mi dovetti sottoporre a delle analisi di routine. Alcuni valori erano fuori norma e così un paio di giorni dopo mi fu imposto il ricovero. Inizialmente i medici mi diagnosticarono un’epatite, ma dopo un breve ciclo di cure i valori continuavano a risultare sfalsati; una volta usciti i risultati della TAC arrivò la vera diagnosi: linfoma di Hodgkin al quarto stadio. Una fase molto avanzata,espansa e quindi anche molto aggressiva. I medici rimasero stupiti del fatto che non avessi avuto nessun sentore, nessun sospetto: ma lavoravo all’Ilva come operaio per circa 12 ore al giorno, e l’enorme stanchezza l’attribuivo, ovviamente, al lavoro particolarmente usurante che svolgevo. Anche se, a pensarci, il mio lavoro ha molti legami con il male con cui ormai lotto da tre anni a questa parte.

In che senso?
Beh, ho lavorato per sei anni all’Ilva, proprio all’interno di uno dei reparti sequestrati poiché fuori norma. Per sei anni ho respirato costantemente diossina, ed è risaputo che i fumi tossici sono tra le prime cause di tumori e leucemie. Non ho esitazioni nel dire che è stato a causa del mio lavoro che ho contratto la malattia.

Cosa è accaduto una volta accertata la diagnosi?
Ho iniziato un primo ciclo di chemioterapia della durata di sei mesi. Sei mesi durante i quali le mie condizioni non miglioravano, e per questo mi rivolsi all’Inps per ottenere un sussidio o comunque un riconoscimento del mio grave stato di salute. Mi dissero che il mio caso non poteva considerarsi malattia da lavoro, e che quindi rientravo nella categoria delle malattie comuni. Capisci? Ero pieno di metastasi, sottoposto a cure pesantissime, eppure le mie condizioni erano ritenute equiparabili a un malato di tonsillite, o di dissenteria. Ma questo è un dettaglio rispetto a ciò che mi successe pochi mesi dopo.

Ovvero?
Siamo nell’Agosto 2010, il male era ancora molto esteso e sembrava non risentire in alcun modo delle cure. Mi stavo per sottoporre ad un ulteriore ciclo, in vista poi di un eventuale trapianto di midollo. Un giorno arriva a casa una raccomandata direttamente dall’Ilva: era la mia lettera di licenziamento. Non una telefonata, un preavviso, niente di niente. Solo una lettera in cui, in sostanza, mi si diceva che ero diventato un peso per l’azienda in quanto le mie condizioni di salute mi impedivano di contribuire alla produzione.

Immagino ti sarai rivolto a un rappresentante sindacale o a qualcuno che potesse eventualmente darti una mano.
Sì, mi rivolsi al rappresentante Fiom di riferimento, il quale si fece carico di analizzare la mia situazione. Purtroppo la risposta finale fu che, da contratto nazionale, era possibile licenziarmi e questo per giunta anche senza un particolare preavviso. Nonostante  fossi un dipendente assunto a tempo indeterminato. Insomma, nessuno poteva fare niente per aiutarmi. Ma non mi meraviglio.

Come mai non ti stupisci? Immaginavi un risvolto simile?
Ho sempre avuto coscienza del fatto che le condizioni di lavoro di noi operai non fossero particolarmente buone. E ho sempre saputo che non era interesse di nessuno far sì che migliorassero: non è certamente notizia odierna che la maggior parte degli impianti fossero fuori norma e quindi nocivi per la salute. Di questa situazione sapevano tutti: sapeva la dirigenza, ovviamente prima responsabile della situazione; sapevano i miei colleghi operai; sapevano i sindacati, negli anni subissati di richieste di aiuto; sapevano i periti e sapeva tutta Taranto: neanche la nube di fumo con raggio di oltre 20 km è notizia odierna.

Quindi tutti sapevano e nessuno parlava.
Certo. E del resto nessuno è stato mai particolarmente incentivato a rompere il silenzio. I Riva hanno i mezzi per comprare il silenzio di chiunque: soldi, favori, posti di lavoro. E per le istituzioni locali fungono da “ammortizzatore sociale”: l’incapacità di fronteggiare una congiuntura economica particolarmente grave ha fatto sì che l’Ilva fosse un “bene da tutelare”, poiché fonte di occupazione. E anche questo non è del tutto vero: lo stabilimento garantiva posti di lavoro, ma nel frattempo, grazie alle emissioni tossiche, turismo e agricoltura sono stati strangolati. Nessuno è stato così lungimirante da poter immaginare dove tutto ciò avrebbe portato.

Ecco, i posti di lavoro. Lo sai, vero, cosa pensano i tuoi ex colleghi di un’eventuale chiusura dell’Ilva?
Lo so eccome. So bene che molti di loro credono sia meglio un’occupazione rispetto a delle condizioni di salute migliori. Ma questo lo credevo anche io quando ho fatto domanda per lavorare all’Ilva: conoscevo i rischi, ma con una moglie e dei figli tutti minorenni a carico, speravo di riuscire a garantire loro un futuro migliore, più solido. E invece eccomi qua, malato, senza una prospettiva di vita e per giunta disoccupato. I miei ex colleghi credono veramente che sacrificare la salute gli garantisca un destino diverso, migliore del mio?

In fondo neanche le istituzioni, Governo in primis, sembrano intenzionate a far chiudere i battenti.
No, per l’appunto. Se neanche Clini e Passera hanno capito che cosa voglia dire anche solo un giorno in più di Ilva non a norma, come si può pretendere che lo capiscano i miei colleghi? Ovviamente la politica non è che non capisca, ma piuttosto non ha interesse affinchè lo stabilimento chiuda e comporti quindi oneri per lo Stato in termini di ricollocazione dei lavoratori, ammortizzatori sociali e simili. In più con Riva ha fatto affari un’intera Regione, nessuno ha interesse a neutralizzare un personaggio simile e la prova di ciò è costituita dal fatto che i soldi della bonifica li pagheranno di tasca propria i contribuenti, e non certo chi ha inquinato e ucciso per anni. Anche il fatto che solo e soltanto a Taranto non esista un registro di vittime e relative malattie dà la misura di quanto silenzio ha avvolto in tutto questo tempo la città.  

Il quadro che dipingi è terrificante. Tutti oppiati e anestetizzati, chi per interesse e chi per ignoranza o inerzia.
È così. Ma un’eccezione c’è: il gip Todisco sta svolgendo un ottimo lavoro, e francamente spero possa andare avanti per la sua strada senza intoppi. Vedere molti giovani esprimerle solidarietà durante la manifestazione di venerdì scorso mi ha riempito di gioia, e di speranza. Ho sempre provato una rabbia enorme e un senso profondo di impotenza tutte le volte in cui sui giornali si parlava dell’Ilva come di un’oasi felice, con foto di fontane, parchi, uffici tirati a lucido, palazzi nuovi e lussuosi. Nessuno ha mai fatto vedere le cokerie, gli altiforni: i reparti peggiori, quelli dove il lavoro diventa ben presto una condanna a morte certa.

Prima hai detto di nutrire ancora delle speranze per il futuro. È un’affermazione che mi risulta un po’ inaspettata, dopo quello che ci siamo detti fino ad ora.
Per me, per la mia vita, effettivamente non nutro moltissime speranze: nonostante il trapianto, il male si è ripresentato e continuo ad essere sottoposto a pesanti cicli di chemio; trascorro buona parte della settimana a letto, immobile, incapace di muovere un braccio o una gamba tanta la debolezza e la precarietà delle mie condizioni. So che il mio futuro è incerto. Ma ho speranza per i miei figli, nonostante la più piccola sia nata appena un anno prima che io mi ammalassi e non abbia quasi nessun ricordo di me in salute. Ho speranza per quei giovani che ho visto in piazza venerdì. E ho speranza che la mia storia smuova la coscienza di qualcuno, di chi ancora crede che si possa barattare anche se stessi con un posto di lavoro e qualche risparmio in banca a fine mese. E un’ultima cosa.

Non credere che io sia felice di raccontare la mia vita con tutta questa dovizia di particolari, specie poi quest’ultimo frangente così difficile e doloroso. Ma, vedi, io non ne posso più di ascoltare certe bugie, certe menzogne e luoghi comuni sull’Ilva, sulle malattie e su Taranto. E non ho la presunzione di credere che chiunque pensi certe cose e legga la mia storia cambierà idea di punto in bianco. Però vedo che c’è ancora una coltre di silenzio su certi argomenti, noto che certe posizioni ambivalenti sulla questione ci sono ancora, e ci sono anche da parte di esponenti illustri del Paese: scardinarle sarà difficile, molto difficile. Forse, anzi, probabilmente, i miei figli cresceranno senza un padre, ma vorrei che qualcosa rimanesse: vorrei dare un contributo, anche se piccolo, a questa lotta contro chi della vita umana, della dignità dei lavoratori e degli abitanti di una città, se ne frega. Perchè, credimi, questa è una guerra. Una guerra fredda.

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