«Fermiamo l’Italia», il grido del disagio

Il durare della crisi ed il timore di non poter dare da mangiare ai figli portano il ceto medio in piazza. Le strutture basilari dello Stato latitano, l’economia non regge più: siamo ad un passo dal tracollo

 

TRIESTE – Da troppo tempo il sistema politico italiano, l’odiosa Casta autoreferenziale e clientelare, gioca in difesa, incapace di produrre proposte veramente innovative agli Italiani: istruzione, fisco, sanità, giustizia, pensioni, lavoro rantolano in cerca di una boccata d’ossigeno, negata dalla mancanza di idee coraggiose.

I problemi che ci affliggono oggi sono sempre gli stessi di ieri, magari un po’ peggiorati, ma il vero rischio è che rappresentino anche le incognite di domani, in un continuo rinvio all’insegna del mantenimento dello status quo e del “non si può fare”: il tempo a disposizione del Paese è ormai scaduto, ora si devono intraprendere nuove strade, abbandonare modelli datati e convinzioni consolidate; in una parola assumersi la responsabilità di correre qualche rischio, agendo con coraggio e fantasia.

Le manifestazioni che in questi ultimi giorni stanno interessando l’Italia e che sono sfociate nei violenti scontri di Torino tratteggiano una protesta caotica, all’insegna dell’esasperazione per il perdurare di una crisi costellata di suicidi, debiti, timore di non poter più dar da mangiare ai propri figli. È il ceto medio degli artigiani, dei commercianti, dei trasportatori, dei piccoli imprenditori che è sceso in piazza a gridare il proprio disagio; ridotto allo stremo da tasse ed eccesso di burocrazia, si rivolta contro una Casta politica che, pur di espandere la propria ingerenza ovunque, ha mancato al suo compito principale: far funzionare le strutture basilari dello Stato. 

La protesta «Fermiamo l’Italia» è iniziata lunedì scorso e, complici l’assenza ed il disinteresse del sistema e delle forze sociali, si è subito caratterizzata per momenti di ordinaria follia, inammissibili ed ingiustificabili, dietro ai quali però si intravede, per meglio dire si percepisce, l’estremizzazione di un disagio collettivo: «Ci hanno accompagnato alla fame, hanno distrutto l’identità di un Paese, hanno annientato il futuro di intere generazioni (..) contro il Far West della globalizzazione che ha sterminato il lavoro degli Italiani (..) per riprenderci la sovranità popolare e monetaria» si legge sui volantini distribuiti a Milano. 

Proclami all’insegna del populismo, la cui pericolosità deriva dal contesto esterno: una sensazione di vuoto allo stomaco fatta di banche che non danno più credito a famiglie e imprese, di disperazione dei pensionati, di un’economia che non regge più, ad un passo dal tracollo, del dilagare del clientelismo, dello svilimento della democrazia, di piazze in fiamme come in Grecia.

Gli Italiani scesi in piazza in questi giorni mal sopportano una politica ossessionata dalle imposte piuttosto che dalla necessità di produrre occupazione, dimostrandosi pronti a riversare sulla Casta lamentele e problematiche economiche mediate dalla crisi, circostanza che ripropone prepotentemente la necessità di tracciare una nuova e ben più responsabile rotta per il Paese, nell’intento di affrancarlo dalla palude della recessione. Ritorno alla solidarietà, anche generazionale, equa distribuzione delle risorse, centralità del lavoro, programmazione di medio e lungo periodo devono essere i criteri a cui informarsi per ridare credibilità all’Italia, ricalibrando in maniera trasparente ed equa ciò che compete o meno allo Stato: ridurre costi ed ingerenze della Casta congiuntamente ad una più generale (e sostanziale) revisione della spesa pubblica sono i primi ed indifferibili passi da compiere per limitare l’attuale uso clientelare della politica.

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