Guerra e pace, la smania mai sopita del drammatico gioco della guerra

ROMA – Il modo in cui va evolvendosi la crisi libica sta già sfuggendo di mano ai nostri freddi strateghi, ai nostri leader politici, europei, occidentali e italiani in prima fila.

È bastata la prima scintilla, le prime bombe che hanno fatto scattare l’entusiasmo, e poi i timori e la confusione. E subito dichiarazioni di estrema fermezza, dubbi sui civili uccisi, scudi umani, NATO sì e NATO no, “faremo ciò che è necessario”, “non ci sottrarremo ai nostri doveri, “pronti in 15 minuti”, ‘cessate il fuoco’ sì e ‘cessate il fuoco’ no, “missione costituzionale”, “non cediamo a paure”, ‘No fly zone’ sì e ‘No fly zone’ no, “possibili raid italiani”, “non dobbiamo farci intimidire”, “non sia guerra”, “pronti a colpire”, “i nostri caccia hanno volato” “i nostri caccia non hanno sparato”, “è necessario proteggere il popolo libico”, “sono addolorato per Gheddafi”. Con il comandante dell’informazione, Bruno Vespa, che chiosa: “Chi comanda in Libia?”. I tentativi di dare prove di saggezza che inesorabilmente si sciolgono davanti all’impulso di dimostrare il proprio valore di guerriero e alle contemporanee indecisioni proprie di chi si improvvisa condottiero.

È come quando ci si prende a pugni: arriva un momento in cui si perde la ragione e scattano gli istinti più nascosti, dentro di noi e nel nostro passato genetico, di lotta per la sopravvivenza e di predominio. E si mescolano paura e violenza, rabbie sopite e desiderio di potere.
E se inseriamo la guerra in questo contesto ci sembra quasi una drammatica esigenza, un istinto naturale difficilmente frenabile, Eros e Tanathos. Lo ammettono Sigmud Freud e Albert Einstein nel loro famoso carteggio del 1932, prima della seconda guerra mondiale e dello sterminio degli ebrei. E Freud nella sua risposta individua un unico rimedio “per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra”, che sarebbe un patto tra gli uomini “per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti”, aggiungendo, però, che la vera difficoltà non consiste nella creazione di questa istituzione ma nel darle il potere necessario e non contestabile per agire con efficacia.

I secoli di civiltà, progresso e cultura avrebbero dovuto stemperare questo istinto violento e incapsularlo dentro una serie di patti e regole convenienti per la comunità e per ogni cittadino che, liberato dalla necessità dell’uso della forza per difendersi o emergere, avrebbe potuto migliorare la propria qualità della vita e quella di tutto il genere umano. Il premio Nobel alternativo Johan Galtung sostiene che “i diritti sono un percorso di pace tendente alla riduzione della sofferenza umana” e, come ben stigmatizza Gianpaolo Silvestri, “la guerra ne rappresenta l’antitesi ed è, de facto ed in fieri, la negazione più esplicita, più radicale, di tutte quelle norme di civiltà atte ad instaurare una convivenza nella libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà”.

Ma ne il diritto né la cultura hanno fermato la guerra che, regolarmente, sopravanza la razionalità e che, nella nostra era della comunicazione globalizzata naviga a vele spiegate, spinta da “forza e frode”, con il motto “tutto diventa lecito”. Accade così che si moltiplicano i giornalisti camuffati da soldati, o meglio, i soldati camuffati da giornalisti. Le poche notizie a disposizione ci vengono direttamente da uffici stampa delle forze militari e i reportage di guerra sono ormai impossibili o possibili solo se eterodiretti dall’esercito in guerra. Bisogna imbrigliare, o per lo meno gettare nel dubbio, tutti, anche i democratici e perfino i critici del sistema. Bisogna camuffare la verità e renderla indecifrabile. Eccoci quindi a una delle più importanti rivoluzioni lessicali mondiali della nostra era, con un confluenza tra la semiotica e il marketing in cui le armi diventano ‘intelligenti’, le guerre ‘umanitarie’, le azioni militari ‘missioni di pace’, la lotta per la supremazia ‘difesa dei diritti umani’. I nemici sono ‘terroristi’ e, per cogliere l’ultima trovata, tutti ‘mercenari’. Saranno poi gli eventi, ‘l’irresistibile fascino della violenza’ contro il diverso, il nemico, il cattivo, a prendere il sopravvento sulle masse.

I decenni passano ma siamo ancora al punto della discussione teorica tra Freud e Einstein su come frenare l’istinto alla guerra o solo un passo più avanti, alle speranze di Danilo Dolci, Aldo Capitini, Ernesto Balducci e tante altre “anime belle” di buona volontà ma che non riescono ad avere la meglio. Con una non sottovalutabile differenza: un nuovo sistema di potere, globale e biopolitico, rivolto a manipolare corpi, menti e socialità, affettività e comunicazione, che è capace di imporci l’esercizio legittimo della forza e della guerra e di spostare le paure e le speranze della gente su alcuni fatti per occultarne altri simili, con una capacità di comunicazione che arriva all’intero pianeta. E con gli stessi obiettivi di sempre nelle azioni politiche degli stati: la lotta per guadagnare potere o per l’egemonia.

Se ci riferiamo a questi ultimi due punti capiamo meglio che il tentativo, palese o mascherato, da parte delle grandi potenze, di appropriarsi delle fonti petrolifere ed energetiche, in un periodo di sempre maggiore penuria, non è affatto una lettura semplicistica dei fatti; comprendiamo anche che l’oblio o l’interesse pregnante – a corrente alterna e a seconda delle situazioni – verso le dittature, la mancanza di democrazia o le violazioni dei diritti umani in Honduras, Bahrein o nello Yemen, in Libia, Palestina, Bielorussia, piuttosto che in Arabia Saudita, Cecenia, Corea del nord, Iran, per citarne solo alcuni, o verso le incredibili violazioni di sovranità con le condanne dell’ONU rimaste carta morta, di poche decenni o anni addietro, come nel caso dell’occupazione di Grenada, del bombardamento di Panama, o delle decine di risoluzioni disattese da Israele o dall’Indonesia mentre massacrava la popolazione del Timor Est, sono tutte lotte per rafforzare il potere o l’egemonia di un’idea, di uno stato o di un gruppo di stati sugli altri. Una lotta che si combatte attraverso il controllo diretto delle risorse, insieme al controllo di uomini e donne, menti, corpi, immaginari, simbologie e trasmissione dell’informazione.

L’Italia, nella sua giovane storia e con il peso dell’antica gloria di Roma, si è mossa con affanno per mantenere alto il suo status di antica potenza. Quando ci sentivamo più forti, proprio in Libia abbiamo impiccato, torturato e dominato gli “infedeli selvaggi”, poi ci siamo ridotti a chiedere loro benevolenza offrendo baciamani, passerelle nelle nostre città più belle, inchini e promesse di costruzione di ponti e autostrade. In questi giorni i nostri leader sono su un ciglio, frenati dagli interessi e spinti dall’istinto. Ora che è guerra e che il nostro posizionamento in Libia, nella Libia del dittatore Gheddafi e dei suoi abusi dei diritti umani, rischia di essere fortemente ridimensionato, restano le dichiarazioni roboanti che “siamo pronti a fare la nostra parte” e “non ci tireremo indietro”, l’istinto di vendicarsi della Libia che non ha voluto riconoscerci la nostra supremazia e di Gheddafi che ci ha voluto umiliare in varie occasioni; contrapposte ai timori e alla realtà dei fatti, alla possibilità ormai svanita di porci al centro di una soluzione della crisi o a fianco di una faticosa battaglia per un reale sviluppo democratico e partecipativo di quel paese, e che ci espone a una ulteriore accelerazione del nostro lento ma già avviato declino. Si servirà il caffè aspettando poi la mancia.

E per il futuro degli scenari internazionali, i bombardamenti, gli inevitabili morti del drammatico gioco per il potere della guerra e i tanti dolori che verranno vissuti o percepiti, apriranno ancor di più quel solco tra i paesi occidentali, la loro ossessione per il profitto, l’egemonia per il controllo delle ricchezze, l’insensibilità verso la povertà, lo sfruttamento fuori dai loro confini e i paesi del sud, con le loro sofferenze, l’indignazione, le memorie ferite e il loro avere poco o nulla da perdere.

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