Giovani generazioni fra rabbia e rancore

Foto di Alessandro Ambrosin ©

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ROMA – Sembra, ormai, che la dialettica interna al Pd si sia ridotta allo scontro che oppone le nuove alle vecchie generazioni.

Non c’è più traccia non solo della vecchia faida di palazzo rappresentata dalla lotta sorda tra Veltroni e D’Alema che il Partito democratico ha ereditato dai Ds, ma nemmeno di quel conflitto irrisolto tra le culture costitutive del nuovo partito che rese subito incerto, sin dal suo nascere, il suo ruolo nella crisi italiana. E a premere sull’acceleratore della polemica generazionale non c’è solo Renzi. Se Stefano Fassina sembra rientrato nei ranghi, su di essa continuano a puntare Orfini e Civati che pure mal digeriscono l’impianto decisamente di destra che anima la campagna politica del sindaco di Firenze.

Nei giorni scorsi “Repubblica” (in un articolo che in gergo giornalistico si usa definire “retroscena”) attribuisce la tregua che intercorre tra le diverse componenti politiche e culturali che hanno dato vita al Pd a un patto di potere tra sessantenni che avrebbero già definito gli organigrammi derivanti da una probabile vittoria elettorale, conseguita più che per propri meriti per lo stato di decomposizione dell’intero sistema politico.
Ma se ciò fosse vero (cosa altamente probabile, se si conoscono usi e costumi del personale politico della seconda Repubblica), sarebbe una conferma che il rapporto, e lo scontro, tra generazioni sta prendendo il posto di quello tra idee e interessi contrapposti. Ne consegue che, forse, sarebbe il caso di interrogarsi sulle ragioni che stanno alla base del primato che ha assunto lo scontro generazionale. Non ci si lasci ingannare che il suo maggiore rappresentante (mi riferisco a Renzi) sia espressione di quella porzione d’Italia ottusa e volgare – sia essa figlia del chiuso provincialismo che un certo modo di essere Firenze qualche volta produce, o degli spiriti animali che affondano nella Brianza come nel caso di Berlusconi – che dalla fine dei partiti di massa, che l’avevano in qualche modo imbrigliata, nel corso degli ultimi venti anni è sistematicamente prevalsa. Tutto ciò, che rimanda alla fragilità e all’intima irresoluzione del processo in cui l’Italia si è costituita come nazione, non ci deve offuscare e impedirci dall’indagare sul fondo di verità che sta alla base del conflitto generazionale e che costituisce la ragione del suo successo.

Esso si trova innanzitutto nella società e in come essa sta reagendo alla crisi. Senza nulla togliere al carattere mistificatorio delle teorie di stampo neoliberista dei “padri che tolgono ai figli”, bisogna saper guardare a viso aperto alla rabbia sorda che si sta accumulando nelle giovani generazioni e nel rancore verso le responsabilità, vero o presunte, di chi non ha saputo loro garantire un futuro.
In secondo luogo bisogna ormai prendere atto che la situazione attuale è anche il frutto del fallimento di una generazione politica. Mi riferisco alla nostra generazione che ha dimostrato – se si fa un bilancio onesto e veritiero – di non essere stata all’altezza dei cambiamento epocali da cui, a partire dal ’68 per passare dal crollo del comunismo e per arrivare alla crisi sistemica attuale che sta mutando un assetto plurisecolare del mondo, è stata investita. Dobbiamo riconoscere che non ce l’abbiamo fatta, perché troppo a lungo abbiamo cercato di interpretare le grandi istanze di cambiamento di cui pure eravamo portatori entro le categorie di un secolo che troppo rapidamente stava andando a finire, e perché successivamente cedendo a un malinteso senso del realismo siamo stati succubi delle ideologie delle classi dominanti. E’ così che una generazione ha perso autorevolezza  e rischia di non avere nessuna credibilità quando, come ha tentato Bersani con Grillo, bisogna porre un argine alla crisi della democrazia che scaturisce dalle insanabili contraddizioni che hanno investito economia e società. E tra poco il problema non sarà se passare la mano, ma come e a chi.

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