Per fortuna, Obama non è Bush

ROMA – A parte i nomi e la pericolosità del nemico, specie per quanto concerne le possibili ricadute sulla già esplosiva regione mediorientale, rispetto a dieci anni fa non è cambiato nulla. C’è la Siria al posto dell’Iraq, Assad al posto di Saddam Hussein, papa Bergoglio a denunciare preventivamente la barbarie e la disumanità di qualunque conflitto al posto di papa Wojtyla e infine Obama al posto di Bush a mostrare i muscoli di un’America che, per la sua storia, il suo ruolo e l’ambizione di conservare la leadership mondiale nonostante l’avanzata cinese, non può rimanere inerte di fronte a una carneficina di proporzioni spaventose.

Tuttavia, se le prime tre differenze, per quanto significative, non conducono a un esito diverso della vicenda, la quarta è in grado di modificare il corso della storia e, aspetto non meno importante, di determinare il futuro, la stabilità e la sicurezza dell’Occidente.
Una cosa, infatti, è certa: se alla Casa Bianca ci fosse ancora Bush, con ogni probabilità gli Stati Uniti avrebbero già bombardato a tappeto Damasco e magari Aleppo e le truppe di terra sarebbero già entrate nel mattatoio siriano per esportare un modello di democrazia che da quelle parti non potrà mai funzionare.
Per nostra fortuna, invece, lo scorso autunno gli americani hanno avuto l’accortezza di confermare alla guida della Nazione più potente del mondo un presidente colto e riflessivo, capace di conciliare il suo ruolo politico con quello militare e di assecondare la comprensibile, e direi sacrosanta, indignazione della comunità internazionale per l’uso di armi chimiche ai danni della popolazione civile senza venir meno alla sana razionalità e al doveroso pragmatismo che sempre deve caratterizzare chi riveste un ruolo così prestigioso e decisivo per le sorti dell’umanità.
Perché, pur condividendo le critiche di alcuni commentatori che imputano a Obama eccessivi tentennamenti e di essersi impiccato alle proprie dichiarazioni di princìpio (la famosa “linea rossa” delle armi chimiche da non superare per nessun motivo), è altrettanto vero che già il fatto che gli Stati Uniti siano governati da un uomo che tiene in grande considerazione i valori morali, il rispetto e la dignità degli esseri umani è un passo avanti di non poco conto rispetto a quando il “war president” e il suo fido alleato Blair scatenarono una guerra nella quale siamo tuttora impantanati sulla base di presunte armi di distruzione di massa in possesso a Saddam rivelatesi poi un bluff.
E, soprattutto, perché andrebbe analizzata con la massima attenzione la riluttanza manifestata da parlamenti e opinioni pubbliche occidentali in merito a un eventuale attacco in Siria.
Le ragioni, a nostro giudizio, sono assai meno etiche e strategiche di quanto vengano descritte dalla stampa internazionale. Per quanto pesante e negativa, difatti, l’eredità lasciata da Bush e Blair è assai meno influente sugli orientamenti dell’opinione pubblica di quanto una certa retorica giustificatoria voglia far credere.
Il motivo per cui Cameron, ad esempio, non è riuscito a convincere il proprio Parlamento della presunta necessità e urgenza di quest’azione è che sia gli esponenti del suo stesso partito sia i membri del Labour, evidentemente, hanno ben presente la constatazione di chi ha fatto notare che tutte le nazioni che nel 2003 decisero di seguire Bush e Blair sul fronte iracheno, oltre ad essersi esposte in alcuni casi alla barbarie delle ritorsioni terroristiche, si trovano oggi a dover fare i conti con una crisi economica, sociale e politica senza precedenti. E non è che la Gran Bretagna se la passi poi tanto meglio, benché goda di una discreta stabilità istituzionale e possa ancora contare sulla propria influenza a livello globale.

Con ogni probabilità, queste stesse considerazioni deve averle formulate anche Obama se è vero, come è vero, che ha affidato la decisione circa un’eventuale intervento in Siria al voto del Congresso, pur disponendo di prerogative che gli consentirebbero di bypassare l’eventuale pronunciamento negativo del Parlamento.
Non a caso, nell’appellarsi al voto del Congresso il Presidente ha fatto riferimento proprio a quei valori morali prima richiamati, asserendo: “Vorrei chiedere a ogni membro del Congresso e alla comunità globale: quale messaggio manderemmo se un dittatore potesse sterminare con le armi chimiche centinaia di bambini sotto gli occhi di tutti e non pagasse per questo? Tutto ciò va ben al di là della guerra chimica. Se non facciamo sì che l’autore di questa atrocità risponda del proprio operato, come verrà interpretata la nostra determinazione nell’opporci contro chi viola le più fondamentali leggi internazionali? Contro i governi che dovessero procurarsi armi nucleari? Contro i terroristi che dovessero ricorrere alle armi biologiche? Contro gli eserciti che attuano genocidi?”.
Il riferimento all’Iran degli ayatollah, fermo sostenitore del regime di Assad, è evidente, come è evidente il timore che il probabile attacco alla Siria inneschi quella reazione a catena che potrebbe incendiare ulteriormente il Medio Oriente, con conseguenze drammatiche e imponderabili per un Occidente mai così fragile e insicuro come in questo momento.
Per questo, è da apprezzare e sostenere la cautela del ministro Bonino e la ragionevolezza della posizione del governo italiano. Per questo, è incomprensibile e alquanto ridicolo l’improvviso militarismo di Hollande. Per questo, e non solo per via delle imminenti elezioni, che peraltro la vedono in testa in tutti i sondaggi con ampio margine sui rivali, la Merkel fa benissimo a mantenere la linea del non-interventismo avviata da Schröder, in netta contrapposizione alla politica muscolare di Bush e dei suoi alleati di allora. Perché dieci anni fa, in Iraq, con quella guerra catastrofica e inutile, l’Occidente non ha fatto altro che abusare presuntuosamente di una potenza che oramai non possiede più da tempo.

                                                                                                                                      

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