Il problema europeo, la politica degli interessi di quell’un per cento di super-ricchi

ROMA – No, quest’Europa così non ha un futuro. Non ce l’ha se continua a disquisire sul nulla e a lasciare al solo Draghi l’immane compito di salvarla dalla rovina e dal default. Non ce l’ha se pensa di risollevarsi nominando ai vertici della Commissione europea una figura come Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale e simbolo vivente dello strapotere della finanza sulla politica, o, peggio ancora, Tony Blair, emblema del fallimento della sinistra negli ultimi vent’anni, col suo liberismo mascherato da modernità, la sua prosecuzione della devastante linea economica e sociale thatcheriana, il suo asservimento alle manie guerresche di Bush, il suo anti-europeismo spinto e il suo essere il principale interprete di quella teoria politologica chiamata “Terza via” che, di fatto, è stata recentemente disconosciuta anche dal suo promotore. No, non è con questi personaggi che usciremo dalla crisi e torneremo a crescere e ad avere prospettive occupazionali e di sviluppo economico.

Servirebbe un’inversione di rotta collettiva, l’accantonamento definitivo dei dogmi del liberismo selvaggio e il ritorno a sane politiche di stampo keynesiano, puntando sul concetto di Stato imprenditore e, dunque, sugli investimenti pubblici e gli incentivi a famiglie e imprese; senza dimenticare la necessità, oramai ineludibile, di dar vita a una sorta di IRI europeo per far fronte alla necessità di ricostruire il tessuto industriale, altrimenti, dati alla mano, dal baratro non ci risolleveremo più se non a costo del sacrificio di almeno tre generazioni.

Il rapporto del Centro studi di Confindustria, infatti, parla chiaro: dal 2001 ad oggi l’Italia ha perso centoventimila fabbriche e con esse un milione e centosessantamila lavoratori, sprofondando all’ottavo posto nella classifica dei paesi produttori e dovendo fare i conti con un crollo del venticinque percento del tasso di produttività. In poche parole, siamo di fronte a una desertificazione industriale senza precedenti che, se dovesse continuare, estrometterebbe di fatto il nostro Paese non solo dal ristretto circolo dei grandi del mondo ma anche dal più vasto ambito delle nazioni con qualche possibilità di essere protagoniste nel Ventunesimo secolo.

Tuttavia, lo ripetiamo, non può bastare il solo Draghi a far fronte ai nostri disastri. Non può e non deve perché, a questo punto, deve tornare in scena la politica e, naturalmente, deve rilanciarsi a livello continentale, stando ben attenta a non cedere alle sirene nazionaliste ed euroscettiche di chi vorrebbe ancora meno Europa e di chi, come il primo ministro inglese Cameron, è pronto a sacrificare un intero Continente pur di non correre il rischio di essere sconfitto dall’ultra-nazionalista Farage alle Politiche del prossimo anno.

Il guaio è che vien da chiedersi se questa politica, sempre più fragile, sempre più inconsistente e, purtroppo, sempre più distante e invisa ai cittadini, sia davvero in grado di ritrovare un ruolo in un contesto globale oramai dominato dalle banche e dalle multinazionali, dai poteri finanziari e dalle decisioni monetarie prese, da una parte, a Washington (FMI) e, dall’altra, a Francoforte (la BCE del nostro Draghi).

Lo capiremo già nelle prossime ore, quando Renzi e Padoan dovranno spiegare agli italiani la consistenza degli interventi annunciati dal governatore centrale: dall’ulteriore taglio dei tassi, portati alla soglia record dello 0,15 per cento, al tasso sui depositi “overnight” della banche presso la BCE che, per la prima volta, scende in territorio negativo (-0,1 per cento); per non parlare poi dello stop alla sterilizzazione dei titoli di Stato acquistati durante il piano SMP (Securities Market Program: Piano per la sicurezza del mercato) varato nel 2010 (il che dovrebbe consentire l’immissione nel sistema di nuova liquidità per centosettanta miliardi di euro), il varo di un pacchetto di misure per risollevare il credito, con tanto di acquisto di titoli ABS (Asset Backed Securities: ossia, titoli cartolarizzati) e maxi-operazioni di finanziamento alle banche ma stavolta mirate, cioè di fatto vincolate, ai prestiti a famiglie imprese. Quest’ultima operazione annunciata prende il nome di TLTRO (Targeted Longer-Term Refinancing Operation: Operazione mirata di rifinanziamento a lungo termine) e prevede che le banche potranno prendere in prestito una somma fino al sette per cento dei prestiti al settore privato (escludendo i mutui per evitare nuovi casi Subprime)  in essere allo scorso 30 aprile, con la clausola che, in caso di richiesta iniziale inferiore alle aspettative, gli istituti potranno approvvigionarsi presso la BCE in due tranche (settembre e dicembre 2014) fino al suddetto limite del sette per cento. Inoltre, Draghi ha annunciato ulteriori iniezioni di liquidità, con cadenza trimestrale, fra il marzo del 2015 e il giugno del 2016, consentendo a ciascuna banca di prendere in prestito dalla BCE somme fino a tre volte superiori ai prestiti netti al settore privato non finanziario che quell’istituto aveva in essere allo scorso 30 aprile. Si tratta, pertanto, di un’immissione di liquidità senza precedenti che potrà essere restituita fino al settembre del 2018, quando si spera che la crisi possa essere considerata solo un brutto ricordo.

In pratica, sia la BCE sia Bankitalia sia persino Confindustria stanno propugnando da tempo politiche keynesiane, sostenute in questo sforzo da un alleato impensabile all’inizio della crisi, ossia l’FMI della Lagarde, finalmente accortosi che la crescita non ripartirà mai fino a quando continuerà ad andar di moda la teoria dello sgocciolamento e della disuguaglianza benefica dei redditi.

Il problema europeo è che la politica, non tutta ma purtroppo larga parte sì, si è da tempo fatta paladina degli interessi di quell’un per cento di super-ricchi, i quali si sono garantiti istituzioni deboli e governanti inesistenti per continuare ad arricchirsi alle spalle di popoli oramai allo stremo.

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