Perchè con Berlinguer un’intera generazione divenne comunista

 

ROMA – Il trentennale della morte è già stato un’occasione molto importante per meditare sull’opera di Enrico Berlinguer.  A Walter Veltroni occorre riconoscere il merito di aver costruito, col film di cui è stato regista e col libro che ha seguito quella produzione, un evento popolare, di memoria collettiva. Tuttavia Veltroni, in  compagnia di molti altri, compie un’operazione revisionistica a senso unico, dando  quasi l’impressione di voler iscrivere Enrico Berlinguer al Partito Democratico, venticinque anni prima della sua fondazione;   identificando il leader del PCI col solo compromesso storico, e dipingendo la sua ultima stagione -salvo che per la questione morale- come un ripiegamento settario.

Proprio sulla questione morale -nelle ore degli scandali del Mose e dell’Expo, e del coinvolgimento di settori dello stesso PD in questi scandali- occorrerebbe prima di tutto riflettere: e domandarsi quanto la personalizzazione estrema della politica del tempo presente (coi costi che comporta) e il venir meno di un’etica condivisa abbiano aperto la strada ad una nuova tragica degenerazione della politica. Chissà che parole avrebbe usato Berlinguer a fronte di scandali come questi!

Per me il 30° anniversario della morte  di Enrico Berlinguer, è l’occasione per tornare sulla questione morale e il rinnovamento della politica, che ho sempre considerato  la più importante eredità che ci ha lasciato questo grandissimo leader del ‘900. Ne “I ragazzi di Berlinguer” (Dalai editore) ho cercato di ricostruire le ragioni per le quali un’intera generazione divenne comunista: perché Enrico Berlinguer era segretario, e incarnava, con la sua sobrietà, col suo stile di vita, con la sua accurata ricerca di parole sempre dense di significato, un’idea di politica alternativa rispetto a quella arrogante che trasmetteva il Potere, soprattutto quel Potere che agli inizi degli anni 80, col pentapartito, strinse una gabbia sulla società e sul suo bisogno di libertà e di protagonismo. Tutti ricordano la sua magistrale intervista a Eugenio Scalfari.

Non si può avere una visione edulcorata o buonista di Enrico Berlinguer. Egli fu osteggiato -dalla stessa definizione di “questione morale” alla proposta di un radicale rinnovamento del Partito e della politica fino alla linea dell’alternativa democratica- da una parte del Partito, custode  di un’idea più tradizionale dell’organizzazione politica, più diffidente rispetto all’interlocuzione coi movimenti -a partire da quello femminista fino al nuovo ambientalismo che allora cominciava a prendere forma- e con le tematiche innovative di cui essi erano portatori. 

La FGCI degli anni ’80 accompagnò prima queste scelte di Enrico Berlinguer e poi, dopo l’84, raccolse l’eredità di questo suo lascito. Di quegli ultimi cinque anni della vita di Berlinguer, tra il ’79, fine dell’unità nazionale e la sua scomparsa a Padova -davanti ai miei occhi, giovanissimo segretario cittadino del PCI-, rimarrà certamente la storia del duro scontro con Bettino Craxi e di quello che poi sarà chiamato l’ “antisocialismo” di Berlinguer. Né vi è dubbio che Berlinguer resistette ad una trasformazione in senso socialdemocratico del Partito: ma questo avvenne non in nome di dogmi del passato, ma di una ricerca aperta sui problemi del mondo, e proprio sul socialismo.

In realtà con questa parte del pensiero e dell’opera di Berlinguer non si sono fatti i conti. E’ passata l’idea, nella vulgata degli anni ’90, poi nel momento della fondazione del Partito Democratico e sopratttutto nelle celebrazioni di oggi, che l’unico Berlinguer da rivendicare fosse quello del compromesso storico e dell’incontro, mai compiuto, con Aldo Moro. Vorrei dire che si è un po’ abusato del vezzo tipico della sinistra italiana di tirare la storia alle proprie contingenti convenienze. Intendiamoci. Vedo una relazione tra il compromesso storico e la questione morale: non chiedo che si faccia un’operazione speculare a quella compiuta nell’ultimo ventennio. La relazione, tuttavia, non sta nella proposta di alleanze politiche; sta nei contenuti della politica e nei caratteri della società nuova per cui Berlinguer intendeva operare: un diverso modo di consumare e produrre (“perché, cosa, come produrre”), anticipando la grande questione ecologica, il rifiuto della violenza e della guerra come soluzione dei problemi, una nuova idea della libertà delle donne, un uso umano delle nuove tecnologie, un’idea diversa della politica. Su questi punti Berlinguer propose un riorientamento del programma fondamentale del PCI, che così faceva sue tante istanze provenienti dal pensiero religioso, soprattutto di quello cristiano sociale, e da una critica umanistica al capitalismo. Berlinguer, già nel corso del periodo in cui si venne logorando la stagione della solidarietà nazionale, cominciò a guardare con occhi nuovi a quello che si muoveva fuori dal Partito e dalla politica. Chissà se davvero, come hanno scritto alcuni suoi biografi, le folle oceaniche di giovani  sotto le Botteghe Oscure che nel 1977 contestavano aspramente il PCI, non furono la scintilla di questa riflessione nuova.

Proprio oggi, quando il Partito Democratico è impegnato in una transizione politica, ed esplode una nuova questione morale che, goccia dopo goccia, è stata scavata trasversalmente nel ventennio berlusconiano del conflitto di interessi e della privatizzazione della politica, si tratta di riflettere sulla lezione di Berlinguer: sulla necessità di aprirsi alla società, al mondo del lavoro, e di connettere la transizione politica alla transizione sociale. Questa è l’epoca in cui un diverso modo di produrre e di consumare si impone come necessità non di un’élite, ma sentita a livello popolare, e soprattutto giovanile. E’ l’unica via d’uscita alla gravissima crisi iniziata nel 2008. Se in onestà si deve fare l’identikit di una parte dei militanti grillini -non certo del loro leader populista-, si trova soprattutto questa idea alternativa di organizzazione della società e della vita, e questo vale ancor più per i comitati e i movimenti che stanno ponendo all’ordine del giorno il tema dei beni comuni, a partire da quello dell’acqua.

Ma più delle parole per Berlinguer contavano i gesti e gli atti. Oggi la sua figura appare agli antipodi di quella del leader vincente, anche nello schieramento progressista: furbo, aggressivo, ipermediatico, un po’ guascone. Chissà se non sia molto più grande un comunicatore che non ha un’overdose quotidiana da video, ma che quando parla, tocca i cuori, fa riflettere, lascia il segno. C’è una sola figura contemporanea che, pur meno timida e più espansiva di Berlinguer, sembra incarnare un analogo stile di vita: Papa Bergoglio. Francesco fa della questione morale, nella Chiesa e fuori di essa, non un’arma di demagogia, ma la sferzata per dimostrare col buon esempio che si può esercitare il Potere con la minuscola, in modo sobrio, umile, “modesto” (della modestia che caratterizza il vero democratico, come scriveva Albert Camus). Occorre un Partito Democratico meno arrogante quando esercita il Potere, meno schiacciato sul Palazzo e più aperto e ricettivo nella società. E con Francesco, Berlinguer coltivava una passione per il Santo di Assisi, fino a portare tutto il PCI -e a spingere la nostra FGCI- alla testa del movimento contro il riarmo nucleare e per la pace. “Il folle Francesco”, dice ad Assisi Enrico Berlinguer, si batte per per convincere i potenti a non fare la guerra: l’utopia dell’uscita dalla guerra nella storia -nell’epoca delle armi nucleari, chimiche, batteriologiche, ipertecnologiche- è uno dei grandissimi lasciti, il più francescano, di Berlinguer. La lezione che ci lascia Enrico Berlinguer  sulla questione morale, sul rinnovamento della politica e sulla necessità di mettere al centro i contenuti e le idee forti -i “pensieri lunghi”- può aiutarci davvero molto in questa stagione difficile.

 

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