Berlinguer trent’anni dopo

 

ROMA – Berlinguer, trent’anni fa. E il primo pensiero corre alla nostra generazione, a noi giovani nati dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine delle ideologie, a noi figli del Terzo Millennio cui è stato raccontato che gli unici aspetti che contano davvero sono il cinismo, la prepotenza, l’arroganza ma, soprattutto, il pragmatismo, inteso come totale assenza di distinzioni e conflitti sociali, di riflessioni, di sguardi approfonditi, di quei “pensieri lunghi” – per utilizzare un’espressione berlingueriana – di cui Dio solo sa quanto avrebbe bisogno la nostra società.

Trent’anni e un mondo scomparso. Perché è vero che il PCI è morto lì, in quella piazza San Giovanni stracolma di lacrime e bandiere rosse, tra pugni chiusi, copie de “l’Unità” intrise di pianto e volti sofferenti, nell’epopea di un dolore collettivo e straziante che tuttora mette i brividi. Ma soprattutto, quel 13 giugno 1984, sono stati celebrati i funerali di una generazione: la morte civile dei ragazzi del Sessantotto, di coloro che un decennio prima si erano battuti per un mondo più libero e più giusto, di chi aveva creduto nell’importanza della discussione e del confronto, della collettività e dell’assemblearismo e, d’improvviso, si ritrovava solo, in mezzo a una marea sconfinata di persone disorientate, in un mondo in cui si stavano rapidamente affermando i dogmi del liberismo, in un contesto sociale che guardava con smodato entusiasmo alla “Milano da bere” craxiana e abbracciava progressivamente i disvalori dell’individualismo e l’idea thatcheriana secondo cui “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Trent’anni e il nostro dolore, immenso, inconfessabile, per essere nati non alla “fine della storia” – come sostiene il politologo statunitense Francis Fukuyama – ma al centro di una storia priva di senso, priva di ideali, di ideologie, dell’idea stessa di comunità e di partito.

Più che commemorarlo, dunque, la nostra generazione è condannata a rimpiangere di non averlo conosciuto, di essere nata in un “tempo sbagliato”, in una stagione senza idee, nel marasma di una società liquida e priva di punti di riferimento, nella quale è a rischio la Costituzione e il concetto di democrazia e, con essi, quei princìpi che animarono la Resistenza su cui si basano le nostre istituzioni e il nostro vivere civile.

Trent’anni, non averli e sentirsi già dei reduci, superstiti di un maledetto nulla che ha inghiottito speranze e prospettive, impedendo ai ventenni di oggi anche solo di coltivare un’illusione.

Trent’anni e quelle immagini sempre fisse negli occhi: le piazze, il popolo, la passione, quell’idea collettiva di esser parte di una comunità più ampia e poi l’attualità, in cui il popolo si è trasformato in pubblico, le uniche piazze gremite sembrano essere diventate quelle virtuali e la passione è scomparsa pressoché ovunque, lasciando il posto all’affarismo, all’arrivismo, alla sete di potere e a quella grande e irrisolta “questione morale” nella quale oggi sta annegando trasversalmente una politica che ha smarrito l’anima e, purtroppo, la sua stessa ragione di esistere.

Trent’anni e, a volte, vien quasi da pensare che sia stato un bene che Berlinguer se ne sia andato in quel modo tragico, su quel maledetto palco di Padova, perché probabilmente avrebbe sofferto in maniera indescrivibile nel vedere la passione di tutta la vita ridotta in queste condizioni che non meritano nemmeno aggettivi.

Poi, certo, dall’altra parte, si immagina quante cose sarebbero state diverse se non se ne fosse andato così, ad appena sessantadue anni, e i rimpianti si mescolano alla nostalgia dei ragazzi che gli hanno detto addio e alla disperazione e al senso d’ingiustizia che pervade chi oggi non riesce ad accettare questo squallore e quest’insopportabile insieme di volgarità.

Trent’anni e una ferita ancora aperta ma, al tempo stesso, un filo che si è spezzato oramai da troppo tempo e, forse, nessuno sarà mai più in grado di riprendere in mano, tornando idealmente in quella piazza rossa e restituendo al Paese una sinistra degna di questo nome.

Trent’anni e tante, troppe interpretazioni sbagliate, fino all’indifferenza, alla derisione e alla malvagità gratuita nei confronti del pensiero di un uomo la cui unica, vera colpa fu quella di porre una netta distinzione fra la sinistra al governo e una falsa sinistra al governo, in grado unicamente di addolcire (e neanche troppo) le ricette della peggiore destra.

Trent’anni e la certezza che Berlinguer sia stato ucciso almeno due volte: prima da chi ha fatto di tutto per dimenticarlo e farlo dimenticare e poi da chi ha travisato o definito inattuale e superato il suo pensiero (talvolta, si tratta delle stesse persone).

Trent’anni nei quali abbiamo bruciato almeno due generazioni e oggi ci apprestiamo a bruciare la terza, insieme ai loro diritti, alla loro dignità e al concetto di cittadinanza democratica basata sul diritto imprescindibile, dunque massacrato da legislazioni sbagliate, al lavoro.

Ciao Enrico, almeno noi che non abbiamo avuto la fortuna di conoscerti, non ti abbiamo dimenticato.

 

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