La tragedia irachena e gli errori della storia

ROMA – Ora, forse, di fronte alla tragedia cui stiamo assistendo in un Iraq sempre più martoriato dalla guerra civile strisciante fra sunniti e sciiti ma, soprattutto, dall’avanzata delle milizie estremiste dell’ISIL (Islamic State of Iraq and the Levant: Stato islamico dell’Iraq e del Levante), capeggiate da Abu Bakr al Baghdadi, ora forse  qualche tronfio cinico di casa nostra si fermerà a riflettere sull’insensatezza degli insulti e delle offese cui fummo sottoposti tutti noi che undici anni fa ci battemmo strenuamente contro una guerra, quella irachena per l’appunto, che era chiaro fin da allora che si sarebbe trasformata in una carneficina senza fine.

Perché è assurdo pensare – e gli Stati Uniti, dopo il Vietnam, dovrebbero averlo imparato a proprie spese – di poter vincere contro un intero popolo, come è assurdo pensare di poter deporre un dittatore sanguinario e poi lasciare il Paese in preda al caos, all’anarchia e ad un vuoto di potere che, immancabilmente, viene riempito da figuri e soggetti politici non meno inquietanti.

È ciò che è accaduto in Iraq ed è ciò che sta accadendo in Afghanistan, dove i talebani sono tornati a dettar legge e il futuro della nazione si preannuncia tutt’altro che roseo. Senza dimenticare le famose “primavere arabe”: il grande sogno, la magnifica speranza di tre anni fa che, in pochi mesi, si è trasformata nell’ennesima mattanza araba, con ripercussioni notevoli anche per il nostro Paese, oggetto di continui sbarchi di disperati in fuga dalla miseria, dalla guerra e dalle rappresaglie delle varie fazioni in lotta per il controllo del territorio.

In Iraq, tuttavia, la questione è assai più delicata, perché le conseguenze di una crisi politica in Mesopotamia potrebbero modificare radicalmente gli equilibri mondiali, prospettando uno scenario tutt’altro che favorevole agli Stati Uniti.

Il rischio per l’amministrazione Obama è, infatti, quello di trovarsi con l’Iraq saldamente in mano alla costola meglio armata, più intraprendente e più anti-americana di Al Qaeda, costretta, per arginarla, ad allearsi con uno stato, l’Iran del moderato Rouhani, che fino a poco tempo fa era incluso nell’elenco degli “stati canaglia”, attirandosi i sospetti del non meno spinoso alleato israeliano e l’astio di tutti coloro che avevano guardato al Presidente degli Stati Uniti come a un interlocutore decisivo per abbattere, da una parte, il regime siriano di Assad e, dall’altra, l’organizzazione libanese di Hezbollah.

Un rebus di difficile soluzione, considerando che Obama deve fare i conti con una contrapposizione interna al calor bianco, con i repubblicani che lo accusano di essere la causa del disastro, per via del ritiro delle truppe, e i democratici che replicano che il vero responsabile della pessima politica estera americana dell’ultimo decennio è proprio il predecessore di Obama, quel George W. Bush che, insieme a Dick Cheney e Donald Rumsfeld, volle a tutti i costi crociate neo-conservatrici che, anziché estirpare le “forze del male”, le hanno importate e rafforzate anche in quei paesi come l’Iraq che se ne erano tenuti al riparo.

Sarebbe, dunque, riduttivo limitarsi a parlare di un abbaglio da parte dell’amministrazione Bush perché è impensabile che strateghi con decenni d’esperienza alle spalle non sapessero o non fossero in grado di consigliarlo in merito a un conflitto le cui ricadute erano scontate prima ancora che cominciasse, con la destabilizzazione e la deriva fondamentalista di uno dei pochi lembi di terra che, da quelle parti, non aveva ancora ceduto all’ascesa khomeinista e al terrorismo jihadista.

Si è trattato, al contrario, di un colossale errore storico e di valutazione, dovuto alla protervia, all’arroganza e all’incapacità di una presidenza accecata da un’insulsa mania di grandezza e da una folle smania di potere, bramosa di mostrare i muscoli al mondo e pronta, per questo, a inventare persino balle clamorose come quella legata alle inesistenti armi di distruzione di massa in possesso di Saddam.

L’aspetto grottesco, e diremmo quasi farsesco, della vicenda è che l’uomo inviato dal governo di Teheran per sostenere il fragile e inviso governo dello sciita al-Maliki è il generale Qasem Suleimani, ossia uno degli strateghi militari più esperti e influenti, già protagonista della guerra fra Iraq e Iran degli anni Ottanta. All’epoca, gli Stati Uniti appoggiarono segretamente proprio Saddam, salvo poi dichiarargli due guerre e condannarlo, di fatto, a una fine atroce, intollerabile anche per un dittatore come lui.

Oggi un’amministrazione democratica sta tentando di porre rimedio a questa serie di catastrofi, ma non sarà facile riscattare un trentennio di presunzione, prepotenza e sbagli che, come sempre, stanno ricadendo sulle generazioni successive e sulla parte inerme di una popolazione allo stremo.

 

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