Ambizioni e limiti del semestre europeo

ROMA – 1914-2014: partiamo da qui. Oggi, infatti, ricorre esattamente un secolo dal giorno in cui il giovane irredentista serbo Gavrilo Princip sparò a Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la duchessa Sofia, uccidendoli entrambi e scatenando uno dei conflitti più atroci della storia dell’umanità.

Partiamo da qui, anche perché il contesto storico-politico, per non parlare di quello socio-economico, attuale del Vecchio Continente non è poi così dissimile da quello di allora, con la differenza che i Princip moderni non sono dei ragazzotti imbevuti di fanatismo e pronti a morire per i loro sogni di libertà bensì degli ultra-nazionalisti in giacca e cravatta, non meno fanatici, non meno irresponsabili e, purtroppo, non meno inconsapevoli delle drammatiche conseguenze delle loro azioni.

Se la Prima Guerra Mondiale è considerata da molti storici il suicidio, di fatto, dell’Europa, cui seguì una lenta e inesorabile perdita di prestigio e centralità negli equilibri globali, è innegabile che i veti, le incongruenze e le chiusure reciproche cui stiamo assistendo in questi anni stiano condannando l’Unione Europea al fallimento, sotto i colpi dell’avanzata dei paesi emergenti, i cosiddetti BRICS, e di una crisi che non accenna a passare per il semplice motivo che le ricette con cui viene affrontata sono l’opposto di ciò che si dovrebbe fare per contrastarla.

Anche stavolta, esattamente come un secolo fa, una fase di ricchezza e benessere si è conclusa ma nulla si profila ancora all’orizzonte, se non le macerie fumanti di un’altra guerra, non meno cruenta, che non si combatte più sulle vette dei monti o nel fango delle trincee bensì sui mercati finanziari, nei santuari del liberismo mondiale, fra gli speculatori e i capitalisti in cerca di un posto al sole o di guadagni sempre più esorbitanti, il tutto a scapito  di popoli oramai allo stremo, sfiancati dall’incertezza e privi di una visione comune o anche solo di una prospettiva, di un punto di riferimento, di un’occupazione stabile in grado di garantire a ciascuno un’esistenza dignitosa e la possibilità di formarsi una famiglia.

Ed esattamente come un secolo fa, i primi ad essere inghiottiti dalla furia nazional-populista sono i corpi intermedi, partiti e sindacati, visti come qualcosa di “vecchio” da distruggere ed estirpare per lasciar posto ad un “nuovo” dai contorni ancora indefiniti che, però, somiglia tanto alla barbarie dei totalitarismi che dilagarono ovunque in seguito allo sfacelo prodotto da un conflitto che aveva aggiunto dolore a dolore, disperazione a disperazione e fatto emergere figure politiche scialbe, inconsistenti, prive della benché minima capacità negoziale o amministrativa, talmente impopolari e prive di nerbo che bastò qualche drappello di squadristi, di esaltati e di facinorosi per costruire intorno a regimi aberranti un consenso di dimensioni mai viste, destinato a durare vent’anni e a condurre il mondo in quel bagno di sangue micidiale che fu la Seconda Guerra Mondiale.

Naturalmente, oggi non può accadere nulla di simile: né la Marcia su Roma né il rogo del Palazzo del Reichstag né che un Duce si affacci dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista; tuttavia, può accadere, e purtroppo sta già accadendo, che un figuro come Orbán sia alla guida dell’Ungheria, che un partito privo di alcun coraggio come il PPE del neo-presidente della Commissione europea, Juncker, non abbia la forza di cacciarlo dalle proprie fila e che un personaggio imbarazzante per pochezza e anti-europeismo come il premier inglese Cameron si unisca ad Orbán nella crociata anti-Juncker, reo, pensate un po’, di essere troppo europeista mentre la Gran Bretagna è in preda all’infatuazione per un altro soggetto da cui stare alla larga, ossia Nigel Farage, leader di un partito, l’UKIP, convintamente e dichiaratamente euroscettico nonché fresco alleato del Movimento 5 Stelle.

Senza dimenticare che nel Parlamento europeo che sta per insediarsi non mancherà proprio nulla: dai neo-nazisti agli xenofobi, dagli anti-europeisti agli indipendentisti, passando per gli ultra-nazionalisti e una serie di cantori della post-ideologia che conteranno poco ma riusciranno, comunque, a produrre numerosi danni.

E in tutto questo cosa fa Matteo Renzi? Pur avendo la possibilità di nominare una figura del calibro di Letta alla guida del Consiglio europeo, con il sostegno di tutta l’Europa progressista e persino, pare, di Cameron che, per motivi elettorali e d’immagine, non può permettersi la nomina in quel ruolo della presidentessa danese Helle Thorning-Schmidt, nuora di un monumento del laburismo britannico come Neil Kinnock, di fatto lascia cadere l’ipotesi.

Ora, noi non sappiamo se davvero il nome di Letta abbia qualche possibilità di farsi strada, avendo l’Italia Mario Draghi alla presidenza della BCE, ma una cosa è certa: dovrebbe essere Renzi, forte del risultato delle Europee, a battersi per avere un Letta in Europa, alleato prezioso contro i dogmi dell’austerity, piuttosto che la rispettabilissima ma ancora acerba Federica Mogherini al posto dell’incolore lady Ashton nel ruolo di ministro degli Esteri europeo. Tuttavia, l’abbiamo scritto mille volte: Renzi è un abile politico ma non uno statista e Letta è eccome un suo avversario, senz’altro più insidioso della pur combattiva minoranza del PD.

Per questo, al termine del vertice europeo apertosi a Ypres, in ricordo di una delle battaglie più sanguinose della Prima Guerra Mondiale, e alla vigilia dell’insediamento di Renzi alla guida del semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea, non possiamo che concludere dicendo che da quest’esperienza c’è ben poco da aspettarsi. Sarà, più che altro, un semestre di nomine, con qualche cauta apertura della Cancelliera sul tema della flessibilità, peraltro vanificata dalla folle revisione dell’articolo 81 della Costituzione che, di fatto, impedisce lo scorporo degli investimenti per la crescita dal computo del deficit, rendendo impossibile in Patria ciò per cui ci battiamo a Bruxelles, e molte promesse prive di contenuti per il futuro.

Peccato che la crisi non svanisca da sola e che a comandare siano ancora i falchi della Bundesbank e tutti coloro cui un’Europa forte, unita, autorevole e solidale fa paura, essendo il principale antidoto ai disastri del liberismo imperante.

Condividi sui social

Articoli correlati