La FIGC, specchio di un Paese in declino

ROMA – Dunque, come da pronostico, sarà Carlo Tavecchio il nuovo presidente della FIGC. Ora, tralasciando le sue gaffe e i suoi aspetti controversi, non meno discutibili di quelli di alcuni dei suoi più illustri sostenitori, vien da chiedersi: ma davvero in Italia non c’era una figura migliore per rappresentare uno sport che da sempre costituisce una cartina al tornasole delle condizioni del Paese, con i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi momenti positivi e i suoi momenti tragici?

Certo che c’era: era Demetrio Albertini, ex calciatore, dirigente garbato e competente e figura che senz’altro avrebbe potuto imprimere una svolta positiva a un movimento sconvolto da anni di fallimenti, di cui la precoce eliminazione della Nazionale ai Mondiali in Brasile non è altro che la punta dell’iceberg. Il punto è che Albertini, come spesso accade alle nostre latitudini, ha messo paura ai cantori di un cambiamento solo a parole, perché il rischio è che con Demetrio, forse, qualcosa sarebbe cambiato davvero e questo a qualcuno incuteva, evidentemente, il terrore.

Meglio, quindi, tenersi un presidente di transizione, fragile al punto giusto affinché sia costantemente condizionabile dai desiderata dei suoi sponsor, e andare avanti con campionati orrendi, privi di spettacolo, di campioni, di idee, di un serio collegamento fra giovanili e prime squadre, caratterizzato dalla violenza di ultras sempre più scatenati (e Lotito dovrebbe saperne qualcosa) e tenuto in ostaggio dalle decisioni del capo banda di turno, cui ultimamente è stata accordata persino la facoltà di decidere se una partita possa svolgersi o meno.
Nulla di personale contro Tavecchio, ci mancherebbe altro, e ci auguriamo di cuore che possa smentire al più presto il nostro scetticismo, a cominciare dalla scelta del nuovo C.t. della Nazionale, ma una cosa è certa: le premesse non inducono all’ottimismo. E le colpe, sia ben chiaro, non sono da attribuire unicamente ai limiti o alle mancanze di un singolo bensì alle carenze, all’arretratezza e alla miseria morale di un sistema che negli ultimi dieci anni ha promesso molto e fallito clamorosamente su tutti i fronti. E guai a pensare che Albertini fosse l’uomo della provvidenza: sarebbe stato solo un segnale positivo, il simbolo di un’effettiva volontà di cambiamento e rinnovamento che i nostri eroi hanno scansato con forza, ben sapendo che avrebbe potuto innescare un effetto domino e magari indurre qualcuno a interrogarsi sugli errori commessi fin qui.
Al che, torna in mente un’amara riflessione di Oliviero Beha, il quale una volta affermò: in un paese ridotto come l’Italia, in cui pure la classe dirigente avrebbe tutto l’interesse a che almeno il calcio funzionasse, esso non funziona per il semplice motivo che a tenerne le fila sono gli stessi che governano, nella maniera che sappiamo, tutto il resto.
Non a caso, Beha è da sempre osteggiato e tenuto ai margini, specie negli ultimi tempi, mentre i sostenitori del “tutto va ben madama la marchesa” sono sempre in auge, ascoltati e riveriti, soprattutto quando si sorprendono ipocritamente per i disastri internazionali a raffica di club palesemente inferiori rispetto ai corrispettivi stranieri e per l’incapacità della Nazionale di esprimere un gioco degno di questo nome. L’idea di essere loro i primi responsabili del declino di un movimento che un tempo era tra i migliori al mondo, tanto che la Serie A era considerata la “Mecca del calcio” e fra il ’92 e il ’98 le squadre italiane arrivarono per ben sette volte consecutive in finale di Champions, mentre la Nazionale conquistava tre Europei Under 21 di fila, una finale a USA ’94 e un quarto di finale di tutto rispetto a Francia ’98, non li sfiora nemmeno. Hanno vinto ancora una volta, con buona pace di chi ha tentato fino all’ultimo di far capire che il problema non era legato ai nomi ma ai modelli, preferendo una continuità che rischia di condurci nel baratro a una discontinuità radicale senza la quale il nostro calcio sarà condannato, in pochi anni, alla marginalità.

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