Quando Pil e benessere non coincidono

ROMA – E’ notizia recente che la Cina abbia preso una decisione rivoluzionaria, decretando che il Pil non è più il paradigma per misurare il benessere di una società.

Una decisione alquanto sorprendente e bizzarra, visto che parliamo della più potente economia al Mondo, la nazione più popolosa, con i suoi 1,351 miliardi di abitanti e anche uno degli Stati più inquinati e inquinanti del Pianeta Terra.

Il governo di Pechino ha pensato quindi di misurare la ricchezza del suo popolo attraverso il rilancio dell’agricoltura, la protezione dell’ambiente e la riduzione della povertà. Una vera e propria inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche liberiste finora adottate, che hanno inevitabilmente provocato drammatiche criticità ambientali e problematiche socio economiche rilevanti.

Tutto ha inizio da alcune province cinesi, come Fujian, la cui economia era basata sull’esportazione del manifatturiero e ora punta tutto sull’agricoltura e all’ambiente o come Hebei,  a nord di Pechino, che da distretto siderurgico ha deciso di ridurre quelle produzioni compromettenti per l’ambiente in favore di uno sviluppo sostenibile. Ma non solo. Anche altre aree sembrano aver rallentato la crescita produttiva in favore dell’agricoltura e dei servizi a scapito dell’industria. Anche Pechino non è esente da questo processo e nel primo semestre del 2014 ha chiuso 213 aziende inquinanti.

Dal Financial Times, che ha diffuso la notizia il 13 agosto scorso, emergono comunque dei dubbi se tale ipotesi  potrà essere appoggiata anche dalle potenti lobby industriali. Tuttavia di sicuro è la dimostrazione che qualcosa potrebbe cambiare  anche in Cina. Non possiamo certo parlare di ‘decrescita felice’, ma di un passo obbligato per i paesi industrializzati che iniziano a fare i conti con un sistema economico discutibile. Anche il Butan da più di tre anni ha già sostituito il Pil con il Gnh, Gross national happiness, ovvero un indice che misura il livello di felicità sui cittadini, basato su 4 punti fondamentali, cioè sviluppo sociale equo e sostenibile, sostenibilità ambientale, promozione della cultura e delle relazioni e buon governo, ai quali seguono altri 72 indicatori sempre basati su un benessere più psicologico e relazionale che materiale.

La stessa Ocse sta studiando un ‘better life index’ in sostituzione del Pil, ma è solo in una fase elaborativa. 

Insomma il cambiamento epocale non sarà così facile. Eppure il 18 marzo del 1968 lo stesso Robert Kennedy, all’Università del Kansas, criticò aspramente il Pil, stigmatizzandone l’inadeguatezza come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. “Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. (Robert Kennedy)

Ma c’è dell’altro. Lo stesso inventore del concetto di Pil nel 1934 e  premio Nobel per l’economia nel 1971, Simon Kuznets, dichiarò che questo indicatore non era un parametro adeguato per misurare il benessere e la felicità della collettività.

Insomma come sosteneva Aristotele, l’alternativa a una ‘economia matematica e mercantile’ può essere solo una ‘economia etica’, che superi quella nozione di felicità gretta e angusta, basata solo sulla teoria del consumo, a scapito dell’emergenza ecologica e dell’equità sociale. 

 

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