Il piano C per la Grecia: oltre l’austerity per il mutualismo, i beni comuni, la resistenza dal basso

ROMA – Allora, la Grecia. Ne stiamo parlando da settimane, mesi. Giustamente ci si indigna per i modi ed i contenuti dell’accordo imposto a Tsipras, ci si indigna della mancanza di democrazia in quei luoghi “ibridi” della governance economica della UE, la Trojka, l’Eurogruppo, il semestre europeo.

Si fa a gara a chi riconosce meriti ad Alexis Tsipras e chi invece lo bolla da traditore, in un gioco al rimpallo che pare tutto strumentale a discussioni di casa nostra. 

Invece di ingegnarsi in questo gioco al rimpiattino, andrebbero tentate alcune vie. La prima, sostenere Syriza, o meglio perpetuare l’atto di rottura, il tentativo che Tsipras ha fatto per aprire una falla nel modello dominante, per smascherare l’elefante che è nella stanza, ossia il fatto che l’Europa di oggi   altro non sia che quella del rigore e della finanza. Il re è nudo, ma non sappiamo ancora come ucciderlo. O forse come cambiargli l’abito. Mentre quindi ci si attarda a alimentare le proprie convinzioni sull’ euro, o contro l’euro, sull’uscita dall’Europa o meno, ci si gingilla su paralleli fuori luogo – anzi inaccettabili – tra Germania e nazismo, il popolo greco comunque pagherà un salatissimo prezzo. 

Quindi, il primo elemento è quello di evidenziare l’enorme debito sociale che la Grecia dovrà pagare, e portare la questione alle estreme conseguenze, ossia immaginare iniziative legali contro la Troika e le istituzioni europee, per provare a trasformare questo momento di estrema crisi, quasi catartico in una opportunità costituente e fondativa. Secondo, liberarsi dalle catene del debito. Per farlo si dovrà lavorare per convocare una conferenza europea sul debito o per lo meno una sede indipendente di arbitrato nella quale tutte le parti in causa siedano a pari livello e dignità. Il Consiglio ONU sui Diritti Umani sta lavorando a questa ipotesi. Forse è prematuro auspicare lo svolgimento di tale iniziativa ora. Ma se da Bruxelles dicono che rinegoziare il debito non è possibile nei parametri di compatibilità si veda intanto se questo è compatibile o meno con l’obbligo delle istituzioni comunitarie e della UE di rispettare le convenzioni internazionali sui diritti umani, e capovolgiamo i termini di riferimento. E si pensi ad azioni legali collettive presso gli organismi per i diritti umani che siano europei o internazionali per chiedere la sospensione delle misure imposte dalla UE attraverso l’adozione di misure di precauzione atte a prevenire la violazione di diritti umani. 

Ecco, capovolgere i termini di riferimento. Sembra invece che la discussione, a sinistra o meno, sia viziata da un punto, quello di svolgersi dentro quel paradigma e quel modello o accettandolo o rigettandolo. Tertium non datur. Al contrario sarebbe forse necessario immaginare un’altra via. Quella che da alcuni in Grecia viene proposta come il piano C. Un piano che immagina altri percorsi, di riappropriazione della cosa pubblica, di recupero di sovranità dal basso, non nazionale ma popolare, di autogestione e mutualismo. Insomma praticare resistenza e attuare pratiche di sopravvivenza, riscoprire il comune, i commons. 

Cosa significa questo in termini concreti? 

Significa che se si vuole aiutare la Grecia e non solo, ma anche possibili esperimenti di rottura con il dogma dell’austerity, si deve passare dalla sua negazione alla costruzione di altro. E questo altro passa attraverso il ripudio del debito da una parte, e la costruzione di relazioni di mutuo soccorso e solidarietà dall’altra. Eppoi, perché non pensare che questa crisi non possa rappresentare un’opportunità? Ad esempio costruendo una proposta dal basso per un Green new Deal per la Grecia che faccia da esempio per tutti i paesi del Sud dell’Europa? Un Green new Deal che preveda un piano pubblico di conversione dei sistemi produttivi, la creazione di reti di produzione energetica rinnovabile e su piccola scala, rispettando la vocazione territoriale e la possibilità di costruire modalità di autogestione ed autoproduzione. Eppoi come suggerisce la rivista the Ecologist, sostenere un piano di riforestazione e rimessa a dimora dei territori e dei paesaggi. Invece di rimanere ingabbiati nella logica dell’austerity, seppur negandola, spostare l’asse su altri concetti ed ipotesi. Quello dei diritti e dell’autodeterminazione, quello del mutualismo e dell’altra economia, quello della giustizia ecologica. Altro che boicottaggio della Germania, se in quel paese si sono sviluppate le migliori pratiche di produzione di energia rinnovabile e su piccola scala, si dovrebbero creare opportunità di scambio e cooperazione! Sviluppare capacità e trasferire tecnologia pulita, non tecnologia per estrarre minerali o petrolio o per centrali a carbone. Ultimo punto: come far sì che da ciò derivi un impulso per un’altra Europa? Ancora, la via da perseguire è quella della riappopriazione degli strumenti normativi e giuridici da parte dei popoli attraverso una costituente dal basso, per un Trattato dei Popoli per l’Altra Europa, da costruire attraverso le pratiche di conflitto, resistenza e mutualismo. 

Insomma, forse il punto vero è che oltre ad essere subordinata – volente o nolente – alla cultura dell’austerity, senza riuscire a immaginare un altro quadro di riferimento, tutta questa discussione resta imbrigliata in un conflitto tra pubblico e privato, tra finanza e politica. E così facendo viene tralasciata o messa in secondo piano la centralità di un approccio fondato sulla vita degna, sulla giustizia ecologica, sul recupero di pratiche mutualiste e dei “commons”. Temi che rischiano – ahinoi – di essere irrilevanti anche nel dibattito in corso sulla nuova sinistra nel nostro paese

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