La democrazia, la politica e la sfida della modernità

ROMA – Ne abbiamo discusso venerdì scorso con Marc Lazar, nel corso di una bella conferenza organizzata dalla Scuola di Politiche promossa da Enrico Letta, dedicata al rapporto fra la socialdemocrazia europea e i populismi arrembanti che stanno squassando e mettendo in discussione la sopravvivenza stessa del Vecchio Continente.

Ho ascoltato la sua analisi, per molti aspetti condivisibile, e gli ho esposto la mia visione in merito ad un tema molto dibattuto ma da pochi osservatori davvero compreso, ossia il rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Quanto influisce lo scadimento, e direi quasi la scomparsa, della prima sulla crisi politico-istituzionale cui stiamo assistendo ad ogni latitudine? E quanto è lecito definire la seconda unicamente in base alla categoria abusata e piuttosto stucchevole di populismo?

Posto che ha ragione Lazar quando asserisce che queste due forme di democrazia non sono sovrapponibili e devono essere ben distinte e posto che condivido, in gran parte, l’opinione di quanti sostengono che la democrazia rappresentativa debba comunque prevalere, in quanto da ciò deriva la salvaguardia del corretto funzionamento istituzionale e la tutela delle molteplici opinioni presenti in ciascun paese, la mia idea è che cadano in errore quei commentatori (non Lazar, devo dire) che si ostinano a porre sullo stesso piano tutte le forze considerate anti-sistema.
Se PEGIDA è puro razzismo e il Front National si connota per le sue compiute ambizioni di potere, ciò che accomuna Syriza e Podemos è, al contrario, il desiderio di restituire voce, libertà, diritti e piena partecipazione ai cittadini, facendosi portavoce delle esigenze e della visione del mondo di coloro che sono rimasti esclusi dalle “magnifiche sorti e progressive” promesse dal ciclone liberista che si è abbattuto sull’Occidente nell’ultimo trentennio. Infine, è bene analizzare l’anomalia italiana costituita dal Movimento 5 Stelle, ossia da una forza politica che si pone, più o meno, i medesimi obiettivi di Syriza e Podemos ma, a differenza di queste due formazioni, non si colloca né a destra né a sinistra, ha scelto in Europa un’alleanza innaturale e irrispettosa dell’opinione della maggior parte dei suoi rappresentanti e, con ogni probabilità, salvo poche, lodevoli eccezioni, non ha una vera ambizione di governo bensì – come ammettono alcuni dei suoi stessi esponenti – intende unicamente restituire voce ai ceti sociali esclusi da quest’orgia di benessere classista che ha acuito il divario fra il 99 per cento della popolazione e il rimanente 1 per cento, sempre più ricco, come certificato dal recente rapporto Oxfam.

Al netto delle differenze fra i soggetti sin qui analizzati, non c’è dubbio che abbia ragione Enrico Letta sia quando asserisce che occorre avere rispetto per la disperazione, e di conseguenza per il voto talvolta “irresponsabile”, dei ceti sociali più fragili sia quando sostiene che la sinistra ha il dovere morale di non inseguire alcuna forma di populismo, in quanto fra l’originale e la copia l’opinione pubblica tende sempre a preferire l’originale.

La conclusione alla quale sono giunto, al termine di quest’interessante confronto, arricchito anche dalle opinioni degli altri ragazzi che vi hanno preso parte, è che una democrazia compiuta nel Ventunesimo secolo non possa prescindere da un connubio fra democrazia rappresentativa, con al centro il Parlamento, i consigli comunali e regionali e, ovviamente, il governo e le varie amministrazioni locali, e democrazia diretta, restituendo ai cittadini lo scettro di cui parlava Lelio Basso e di cui si è occupato, di recente, il professor Pasquino in un suo saggio. 

È inutile negarlo o trincerarsi dietro la sovranità dei luoghi classici della democrazia rappresentativa: nel 2013 abbiamo assistito al pesante condizionamento dell’elezione del Capo dello Stato ad opera di un blog e dei social network, i quali, per giunta, proponevano un nome di gran lunga migliore rispetto a quello scelto da Bersani. E non si contano più le proposte discusse in rete, le petizioni on-line proposte da Change.org, le richieste di rendere obbligatoria la discussione delle leggi di iniziativa popolare che abbiano raggiunto un congruo numero di firme e addirittura le richieste di introdurre in Costituzione la possibilità di indire referendum propositivi (l’unica, a dire il vero, sulla quale, visti i tempi, nutro qualche perplessità). 

Tutto questo, sommato alla sfiducia che ormai ammanta non solo le istituzioni ma anche le élites, il mondo accademico e gli opinionisti delle principali testate nazionali (fenomeno, peraltro, piuttosto diffuso anche in altri paesi), ci dice chiaramente che o a sinistra  troviamo il coraggio di aprirci, di porre l’orecchio a terra, di ascoltare le richieste provenienti dal basso, comprese le più assurde e inqualificabili, e di compiere lo sforzo di tornare ad essere un filtro ma anche un soggetto politico solido e diffuso, in grado di compiere una sintesi tra le diverse istanze, di accogliere e di includere oppure smarriamo la nostra stessa ragione di esistere.

E se le due forme della democrazia contemporanea non saranno in grado di prendersi per mano e collaborare e continueranno, invece, a illudersi di poter prevalere l’una sull’altra, eleggendo da una parte una casta autoreferenziale e dall’altra dei meri portavoce, cui non è praticamente consentito esprimere idee e opinioni personali e votare di conseguenza, se tutto ciò non accadrà, in breve tempo rischiamo di giocarci entrambi. Mai come ora, dunque, è necessario riscoprire la maieutica dossettiana, secondo cui le proposte dovrebbero nascere dal grembo della società e trovare nelle istituzioni la propria attuazione. Mai come ora è necessario restituire voce e prospettive al 99 per cento della popolazione, onde evitare che la dittatura dell’1 per cento possa arrecare danni dai quali sarebbe pressoché impossibile tornare indietro, a cominciare dal disincanto collettivo, dalla disaffezione degli elettori e dalla delegittimazione di istituzioni imbottite di emissari delle varie lobby, manovrati dall’esterno da interessi apparentemente opposti ma in realtà complementari e totalmente disinteressati alla realtà quotidiana, ai drammi e alle necessità di milioni di persone.

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