Hillary ha vinto ma Sanders non ha perso. Riflessioni in attesa del Super Tuesday

ROMA – Che in South Carolina Sanders non avesse alcuna possibilità di battere Hillary Clinton lo sapevamo tutti, a cominciare dall’anziano senatore del Vermont, e non perché l’ex segretario di Stato sia diventata all’improvviso simpatica o affidabile ma semplicemente perché il vecchio Bernie non è Obama.

Non ha la pelle nera, non ha lo stesso fascino esotico, lo stesso fisico aitante, la stessa moglie bellissima a fianco e anche la sua oratoria è più classica, meno accattivante, meno in grado di sfondare a livello mediatico e di coinvolgere quella parte della popolazione con un grado di istruzione medio-basso e un reddito annuo assai diverso da quello del facoltoso e acculturato New England da cui proviene Sanders. Oltretutto, se Obama poteva far leva sul messaggio dirompente di essere uno di loro, un nero figlio di una ragazza madre che ha dovuto combattere con tutte le sue forze per arrivare fin dove è arrivato, rifacendosi ai princìpi dell’“American dream” e suscitando una speranza che specie i ceti più deboli non provavano da parecchio tempo, Sanders è sì un outsider che ha addirittura il coraggio di definirsi socialista ma è pur sempre un senatore proveniente dall’America benestante mentre Hillary, pur essendo l’emblema stesso dell’establishment, è anche colei che agli occhi degli afro-americani, degli ispanici e delle minoranze rappresenta una figura cui va dato atto di essersi sempre battuta per i loro diritti, contro ogni discriminazione.

Infine, ed è un aspetto tutt’altro che secondario, Sanders non può contare sul “fattore Bush”: dopo otto anni di presidenza repubblicana, infatti, a Obama bastava ricordare che la Clinton aveva sostenuto le pulsioni guerrafondaie del war president mentre lui si era opposto strenuamente e che l’opposizione dei vertici democratici al bushismo era stata meno incisiva di quanto sarebbe stato necessario per mietere consensi; Sanders, al contrario, non può parlar male di un presidente che ha votato, che probabilmente stima e del quale condivide la maggior parte delle idee, il che lo priva dello slancio che consentì al giovane senatore dell’Illinois di avere la meglio su una candidata che già all’epoca appariva agli occhi di molti americani come la quintessenza delle lobby e dei poteri finanziari dominanti negli Stati Uniti.

Non solo: dopo otto anni di presidenza Bush, gli osservatori internazionali, e anche numerose testate e agenzie di sondaggi statunitensi, erano dell’idea che il nuovo inquilino della Casa Bianca sarebbe stato comunque un democratico; pertanto, Obama si sentiva libero di attaccare Hillary con particolare durezza, e viceversa, ben sapendo che le vere elezioni sarebbero state le primarie e che la competizione con i repubblicani sarebbe stata poco più che una formalità, come in effetti fu nel novembre del 2008. 

Stavolta il contesto è completamente diverso: otto anni di crisi, difatti, hanno lasciato il segno e, pur essendo stati ben gestiti da Obama e dalla stessa Clinton, consentono ai repubblicani di affondare il coltello nelle piaghe di una ripresa che sì, c’è stata ed è stata anche notevole, incentivata dal tasso zero imposto prima da Bernanke e poi dalla Yellen e da un piano per il lavoro basato su una montagna di investimenti pubblici che, fra le altre cose, ha contribuito a salvare la “Chrysler” a Detroit; tuttavia, a detta dei repubblicani, non ha reso nuovamente “grande l’America”, da qui lo slogan di Trump e la facilità con la quale l’impresentabile miliardario che cita con disinvoltura Mussolini sta sbaragliando i finora incolori Cruz e Rubio.

Pertanto, nel 2016, il candidato democratico, che sia Hillary o che sia Bernie, sa che la competizione con gli avversari sarà tutt’altro che scontata e che, quindi, è meglio evitare eccessivi affondi nei confronti del rivale del proprio campo: da qui, la saggia scelta di Sanders di non infierire sulla Clinton per la storia delle mail private e da qui l’intelligenza della Clinton di attaccare direttamente Trump dopo la schiacciante vittoria in South Carolina.

Con ogni probabilità, la sfida del Super Tuesday sarà piuttosto equilibrata, con gli stati del Sud appannaggio dell’ex first lady (a cominciare dall’Arkansas di suo marito Bill) e il Vermont e il Massachussets kennediano sicuri nelle mani del socialista che fa impazzire i giovani e osa, per la prima volta dopo trentacinque anni, mettere davvero sotto accusa i disastri causati dal liberismo sfrenato di Reagan e da quello tenue ma non certo meno incisivo proprio di Bill Clinton.

Sarà molto interessante, dunque, capire se la Clinton ha imparato dagli errori commessi otto anni fa e se davvero tutto il versante afro-americano ed ispanico è dalla sua parte, specie alla luce dei sondaggi diffusi da Sanders dai quali si evince che solo contro Trump avrebbero entrambi la meglio mentre Cruz e Rubio potrebbero rivelarsi ostacoli insormontabili per un soggetto che trasmette sempre un senso di stantio, di già visto, la sensazione di un passato da consegnare ormai ai libri di storia.

Diciamo, in conclusione, che Hillary ha vinto in Nevada e stravinto in South Carolina ma Sanders non ha ancora perso e che entrambi dovranno essere abili a fare squadra quando si tratterà di arginare gli alfieri di un GOP in preda ad una radicalizzazione pericolosa per l’America e per il mondo intero.

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